Viaggio in Etiopia
Febbraio 2013 - Diario di viaggio di Paolo TomolilloDa parecchio tempo desideravo visitare l’Etiopia ed in particolare mi proponevo di raggiungere la Valle dell’Omo per cercare di conoscere le popolazioni che laggiù sembrano vivere ancora in maniera tradizionale, apparentemente lontano dalla modernità.
Ma volevo farlo da turista indipendente e utilizzando il più possibile il trasporto pubblico: per avere un’opinione sulla fattibilità di un viaggio del genere sono andato a chiedere una consulenza direttamente al signor GianMarco Russo, presso l’agenzia AfroNine a Milano.
La sua opinione era che la cosa si poteva fare e uno dei suoi consigli più preziosi e’ stato quello di contattare la rete di missioni dei Padri Cappuccini, ben radicata in Etiopia e nel suo tessuto sociale…..ed e’ quello che ho fatto, anche se non immaginavo che avrebbe “funzionato” così bene.
– Addis Abeba, 5 febbraio 2013
Eccomi in Etiopia, finalmente sono riuscito a partire.
Sono le nove di sera e mi trovo davanti ad ristorante di cucina etiope, a 100 metri da La Source Guesthouse, l’hotel pulito, comodo e centrale in cui mi fermerò a dormire in questi giorni.
Domando al cameriere: ….until what time do you serve food? Mi risponde: ….until four o’ clock!
Bene, ho un’ora per mangiare: le quattro sono in realtà le dieci, perché in Etiopia si usa contare le ore del giorno a partire dall’alba, convenzionalmente le sei del mattino; quindi se ti dicono “ci vediamo alle due”, l’appuntamento e’ per le otto.
Oggi ho visitato la chiesa della Santissima Trinità e la Cattedrale di San Giorgio, ma non le ho trovate entusiasmanti, forse bisogna andarci alla domenica, quando si tengono le cerimonie con i canti dei fedeli ed i religiosi suonano tamburi e sistri.
Durante il viaggio imparerò che le chiese etiopi non sono affascinanti per la loro monumentalità, ma per il fatto di essere il perno attorno al quale ruota la comunità dei fedeli, che testimonia la propria fede con una sincerità e devozione per noi inimmaginabili.
Per andarci ho preso l’autobus, e’ davvero economicissimo: ho speso 1 birr (5 centesimi), anziché i 100/150 birr (5 euro o più) del taxi.
Il problema sono i nomi delle strade, perché i residenti non le conoscono con quelli riportati sulle piantine, ma con i vecchi nomi etiopi….e’ meglio avere in mente qualche punto di riferimento.
La chiesa di San Giorgio si trova vicino alla “Piazza”: si tratta di una piazza circolare e trafficata nel centro di Addis Abeba che viene chiamata proprio così dagli Etiopi, con il termine italiano.
Che strano, gli Italiani hanno “dominato” l’Etiopia per soli cinque anni al tempo della loro scellerata avventura coloniale, ma hanno lasciato un’impronta che e’ durata molto più a lungo.
Entro in un caffè, la gente legge il giornale o chiacchiera: a proposito, credo che nessun italiano potrà mai lamentarsi di non trovare un buon caffè in Etiopia….anzi, e’ più facile che al rientro in Italia rimpianga il caffè etiope!
Ho finito di cenare, sono le dieci passate, sono stanco e devo riposare.
L’injera era proprio buona, sottile e delicata, sicuramente fatta con il teff: e’ un cereale tipico dell’altopiano, viene macinato e con la farina che se ne ricava si prepara questa specie di piadina chiamata injera.
Di solito non si mangia da sola come il nostro pane, ma viene modellata in forma circolare e distesa su un vassoio, proprio come se fosse un piatto su cui poi si dispongono le pietanze ed i condimenti che le accompagnano.
l’injera e’ estremamente pratica perché oltre che da pane fa anche da piatto e da posata: per mangiare si stacca un pezzetto dell’injera su cui e’ posato il cibo, lo si stringe con le dita attorno al boccone e lo si porta alla bocca.
In questo modo oltre al cibo si mangiano anche il “piatto” e le “posate”: un’ottima soluzione per un paese in cui spesso scarseggia l’acqua pulita per lavarle.
– Addis Abeba, 6 febbraio 2013
Mi sono svegliato alle tre del mattino e per un paio d’ore ho “ripassato” le guide di viaggio e pensato a quello che dovrò fare: negli anni ho imparato che non si e’ mai abbastanza preparati quando si viaggia da soli.
Prima di tutto dovrò raggiungere la missione dei Padri Cappuccini a Soddo, quattrocento chilometri a sud di Addis Abeba.
Una volta laggiù Father A. mi aiuterà a trovare un “compagno” che mi faccia da interprete durante il viaggio verso sud, dove può essere molto difficile trovare qualcuno che parli inglese.
Non mi potrei permettere una guida e forse nemmeno la desidero, ma ho bisogno di un compagno Etiope, cioè di qualcuno che mi possa aiutare anche “facendo numero” nei momenti di difficoltà o quando non riuscirò a capire e a farmi capire.
Dopo colazione mi reco in un’agenzia di viaggio nelle vicinanze per comprare il biglietto dell’autobus, ma lì mi dicono che per questo tipo di trasporti “ordinari” bisogna recarsi direttamente alla stazione degli autobus.
Sono nuovo di Addis Abeba e so che la bus station si trova nel “merkato” (proprio così, in italiano), un luogo temuto per i furti dagli stessi abitanti di Addis Abeba, quindi chiedo al figlio del titolare dell’agenzia di accompagnarmi in cambio di un piccola mancia.
Non bisogna mai dimenticare che normalmente per ogni “servizio” ci si aspetta una piccola ricompensa e conviene sempre domandare prima “quanto” ci si aspetti in modo da evitare delusioni da entrambe le parti.
Non perché gli Etiopi non sappiano essere gentili, figuriamoci, ma e’ normale che chi dedica un po’ del suo tempo ad un ricchissimo sconosciuto si aspetti un ringraziamento….ed in un paese povero una piccola mancia fa sempre piacere.
Comprato il biglietto vado in banca per cambiare dei soldi: vedo gente che se ne esce con quattro o cinque mazzette di banconote in mano (fuori ci sono le guardie) per cui me ne esco anche io tranquillo con il mio “malloppo” in tasca.
Riesco anche a prelevare con il bancomat alla Dashen Bank: molto bene, ha sportelli dappertutto. Poi vado alla posta a comprare i francobolli ed infine mi concedo una visita al Museo Etnografico.
Cosa c’e’ di interessante in tutto questo? Forse niente, ma girare per la città muovendosi il più possibile in bus (pubblico) o meglio ancora in minibus (privato) e’ uno dei modi migliori per conoscerla e per conoscere le abitudini dei suoi abitanti.
Il sistema dei minibus e’ molto efficiente e permette di raggiungere rapidamente ed in maniera economica qualsiasi luogo, a patto di saper indicare un punto di riferimento all’aiutante del conducente, il “bigliettaio”.
Lo si riconosce facilmente dalla mazzetta di banconote che tiene in mano quando esce dall’abitacolo per indicare a gran voce la destinazione del suo mezzo….ma spesso i suoi annunci si sentono prima ancora che il minibus arrivi alla fermata.
Sulle prime Addis Abeba non dà l’impressione di una città in miseria, almeno per quello che ho visto ieri ed oggi: sembra esserci una classe media, ci sono molti beni in vendita nei negozi, i caffè e i ristoranti sono frequentati e la gente passeggia per le strade anche alla sera.
Ma certamente non la pensano così quei poveretti che vivono nelle aiuole ai bordi delle strade, se sono fortunati al riparo di un telo per ripararsi dal sole o dalla pioggia, o nei quartieri periferici fatti di baracche di lamiera, legno, corde e cartone.
Forse più che di una città povera sarebbe corretto parlare di una città che presenta una grande disomogeneità nella distribuzione della ricchezza.
Mi fermo ad osservare alcune macellerie che espongono la carne all’esterno: dopo un po’ mi accorgo che hanno anche dei tavoli all’interno per consumare la carne appena acquistata, che viene preparata e servita su di un’ottima injera di teff, accompagnata da vino o birra etiopi.
Io la faccio cuocere, non si sa mai, il mio stomaco non e’ ancora abituato e per adesso preferisco rinunciare al “kitfo”, una prelibatezza molto apprezzata dagli Etiopi che consiste in una “tartare” di carne cruda.
Lo assaggerò più avanti, per adesso mi consolo mangiando carne cotta e bevendo del vino Axumit: non male, chi l’avrebbe detto……ne offro un po’ anche al gentile signore che mi siede a fianco insieme al figlio.
Queste immagini sembrano contrastare con il vecchio stereotipo Etiopia = scarsità di cibo: in realtà il problema alimentare c’e’, ma e’ dovuto alla povertà di certi strati della popolazione che non hanno i mezzi per acquistare il cibo, più più che alla sua mancanza.
Scendo per Churchill Road, la via commerciale di Addis Abeba, ma e’ troppo tardi e non trovo le cartoline: allora prendo un minibus per Meskal Flower Road (punto di riferimento) e poi un altro per arrivare davanti all’albergo, 5 birr contro i 150 del taxi.
I minibus mi sembrano decisamente sicuri, dovrei imparare ad usarli: non perché sia taccagno o perché non capisca che i miei 150 birr servono più alla famiglia di un tassista che a me, ma mi sembra un modo più autentico di vivere e conoscere la città.
– Addis Abeba, 7 febbraio
Al mattino prima delle 5 sono alla reception, le due “banconiste” dormono sul pavimento, una di loro si alza e va a chiamare l’autista della Guesthouse che mi accompagnerà alla bus station.
La strada non e’ deserta, qualcuno dorme a terra, qualcuno e’ già in giro, ma si anima sempre di più mano a mano che ci avviciniamo al “merkato”: davanti alla bus station c’e’ un caos incredibile, come se fossimo in pieno giorno.
L’autista mi raccomanda molta attenzione …..there are many thieves!.. e si carica sulla spalla il mio zaino come se fosse un fuscello: e’ un uomo alto e robusto, lo seguo standogli vicinissimo e penso che senza di lui sarebbe stato quasi impossibile venire qui, da solo.
Naturalmente l’autobus e’ in ritardo e l’autista mi dice, anzi quasi mi intima “…don’t move, don’t change place…” e va a cercare qualcuno che in cambio di una mancia mi possa aiutare a trovare l’autobus, perché lui deve rientrare alla Guesthouse per iniziare a lavorare.
Torna con un uomo vestito di una cappa azzurra dicendomi che ci penserà lui ad aiutarmi e mi raccomanda di nuovo prudenza, poi mi saluta e se ne va.
Non rivedo più il mio “aiutante” dalla cappa azzurra, ma 10 birr qua, 20 birr là…..alla fine riesco a prendere un autobus per Soddo, il capoluogo della provincia del Wolayta: l’autobus si fa largo in mezzo alla folla del merkato e finalmente si parte.
Questa volta sono stato favorito dalla mia condizione di turista “protetto” e ho rinunciato volentieri a vivere una situazione più “autentica”.……ma nella quale poteva essere difficile cavarsela da solo.
Lasciata Addis Abeba troviamo una strada in ottime condizioni, completamente asfaltata, che si snoda verso sud lungo l’altopiano.
Sono stanco e cerco di riposare, ma non riesco a staccare gli occhi dal finestrino: il paesaggio del Wolayta e’ davvero bello e inaspettatamente verde, ai lati della strada si vedono distese ondulate di campi ben coltivati.
Fra i campi e le colline si vedono anche alcune “traditional houses” di forma circolare, il tetto di paglia e rami e le pareti spesso dipinte con belle e semplici decorazioni.
Le pareti sono costruite con mattoni di fango e paglia essiccati, ma purtroppo le case tradizionali sono sempre meno, credo per via della laboriosità di costruzione.
Ce ne sono anche tante di forma rettangolare, costruite stendendo l’impasto di paglia e fango su un’intelaiatura di legno: sono meno “caratteristiche”, ma più semplici da realizzare per via della forma regolare che rende anche più facile ricoprirle con un tetto di lamiera.
Ci fermiamo a Hosanna per il pranzo: mi siedo all’ombra di una tenda per bere il caffé, vicino a me ci sono altri passeggeri, ma sono l’unico “vero” turista.
Assisto ad una scena di triste miseria: alcune madri con i figli in braccio, uno di loro poverino e’ in pessime condizioni di salute, si avvicinano per chiedere l’elemosina: non dò loro nulla direttamente, ma lo faccio tramite i ragazzi seduti lì vicino a me, anche loro passeggeri del bus.
Naturalmente dopo un po’ le donne ritornano, ma questa volta nasce un alterco fra loro ed i ragazzi, che le scacciano in malo modo: forse lo fanno con l’intento di proteggermi dalla loro insistenza, ma rimango colpito dalla loro durezza verso quelle poverette.
Come ci si deve comportare nei confronti di chi chiede l’elemosina?
Non lo so, posso solo dire che non e’ facile dire di no, sapendo che in un giorno di viaggio si spende quanto una famiglia ridotta in miseria riesce a racimolare in un mese o più di questua, ma non si può nemmeno dare qualcosa a tutti coloro che ci si avvicinano.
Nel tempo io ho scelto di dare qualcosa solo a chi sembra impossibilitato a guadagnarsi da vivere, come le tante persone invalide che purtroppo popolano le strade di un paese con scarse risorse sanitarie ed una previdenza sociale quasi inesistente.
L’Etiopia e’ una paese povero, ma non bisogna pensare che tutti i suoi abitanti siano poveri e quindi solidali fra di loro: si possono distinguere le differenti classi sociali, c’e’ chi può comprare gli snack e i dolcetti che sono in vendita dappertutto e chi invece non ha nulla.
Alla stazione di Soddo viene a prendermi Father A. ….finalmente ci conosciamo di persona: e’ un uomo giovane e gentile, e’ molto disponibile ed apprezza la mia curiosità per il suo Paese.
Arrivati alla Missione visitiamo i laboratori della scuola di formazione professionale: forni di carrozzeria, saldatrici, macchine per falegnameria e tutto quello che occorre per insegnare un mestiere ad una parte dei tanti giovani che ne hanno bisogno e che così potranno costruire il loro futuro,
oltre a quello del loro Paese….la speranza e’ che avendo un’occupazione o intraprendendo un’attività artigianale non siano costretti ad emigrare come purtroppo devono fare in tanti.
Visito anche la scuola, dove studiano centinaia di bambini e ragazzi, maschi e femmine: sono sbalordito dalla grandiosità della struttura e soprattutto dell’opera che la Missione sta portando avanti, prima istruendo quanti più bambini possibile e poi formando professionalmente tanti giovani.
Prima della cena nel refettorio della Missione conosco F. , un uomo sulla cinquantina, italiano, molto energico e dinamico che anni fa ha iniziato ad aiutare la Missione costruendo asili, pozzi, ambulatori…fino a dar vita ad una fondazione Onlus.
L’indomani lui ed il suo gruppo andranno alla cerimonia d’inaugurazione di un pozzo per la distribuzione di acqua potabile realizzato dalla sua Onlus nel villaggio di Ledda: mi chiede se mi farebbe piacere venire, naturalmente accetto con entusiasmo.
Dormo anche io alla Missione, ma prima di addormentarmi scrivo qualche pagina del mio “diario”.
– Soddo, 8 febbraio
Mi alzo presto e mi preparo per andare con F. ed il suo gruppo all’inaugurazione del nuovo pozzo nel villaggio di Ledda.
La cerimonia verrà accompagnata dalla simbolica distribuzione di pane a tutti i partecipanti, quindi ci fermiamo al forno per caricare sul tetto dell’autobus circa duemila panini.
A metà strada il camion si guasta e mentre aspettiamo che l’autista lo ripari veniamo avvicinati da un sacco di gente, desiderosa di avvicinarsi a noi per curiosità o per scambiare qualche parola in Inglese, soprattutto gli studenti.
In qualche caso anche sperando di poter avere qualcosina, ma non lo dico in senso negativo: e’ normale per chi non ha quasi nulla provare a chiedere qualcosa a chi sembra avere tutto….infatti nessuno insiste mai, o quantomeno molto di rado.
Mi colpiscono le parole di uno dei ragazzi, e’ alla mia destra nella foto che mi hanno chiesto di scattare insieme, pur sapendo che non avrei potuto mandargliela: mi racconta che si sforzano di praticare l’Inglese anche fra di loro,
ma tutti questi sforzi non portano quasi a nulla perché non ci sono prospettive a parte forse l’emigrazione ed usa proprio questa espressione: ….it’s so demoralizing!….
Poveri ragazzi, nonostante il loro impegno non hanno quasi nulla di ciò che a noi sembra così normale e scontato, solo perché sono nati nel posto “sbagliato”. Non per merito o per demerito, ma solo per una casualità geografica.
Se per gli studenti la vita sembra avere poche prospettive, per i contadini e’ anche molto faticosa, soprattutto se sono donne: può sembrare strano, ma spesso i lavori più pesanti vengono svolti da loro.
Lasciamo la splendida strada asfaltata ed imbocchiamo la polverosissima pista per Ledda: e’ tutto un sobbalzo e procediamo lentamente, a volte fermandoci per aspettare che si diradi la polvere sollevata dai camion che arrivano dall’altra direzione.
Molto spesso non ha senso valutare le distanze basandosi sui chilometri, perché i tempi di percorrenza variano moltissimo a seconda delle condizioni delle strade: e’ sempre meglio riferirsi alle ore di viaggio.
Quando arriviamo c’e’ tutta la comunità ad accoglierci e sotto un enorme tendone i bambini intonano dei canti di benvenuto.
Rimango stupito quando le “autorità” prima ancora di ringraziare F. e la sua Onlus espongono i loro problemi accompagnandoli con delle richieste: ci vorrebbe una clinica, aule per la scuola, una chiesa ed un prete…..
Forse a noi che non siamo costretti a dipendere dalla generosità altrui può apparire strano….ma probabilmente loro non possono permettersi di essere troppo “discreti” con le uniche persone che possono aiutarli.
Inizia la distribuzione del pane a tutti i presenti: e’ toccante vedere tutte quelle mani ordinatamente tese a ricevere il simbolo del cibo.
Nemmeno un panino verrà sprecato, una cosa del genere suonerebbe al pari di una bestemmia.
Sulla via del ritorno ci fermiamo in una località che non posso citare perché mi e’ stata raccomandata la massima riservatezza, un luogo dove una energica suora gestisce una clinica.
Suor M. ci accoglie con calore, ci chiede soltanto di non scattare fotografie perché potrebbero causarle problemi diplomatici con le autorità.
E’ l’ultimo giorno di un “campo degli occhi” e ci sono alcuni oftalmologi che controllano gli ultimi pazienti: vedo con i miei occhi quello che spesso ho letto sui notiziari di CBM, un’organizzazione mondiale che lotta contro la cecità nei paesi poveri.
Pazienti che stavano perdendo la vista o già cechi che una volta operati di cataratta recuperano “miracolosamente” la vista grazie ad una semplice operazione del costo di poche decine di euro, ma purtroppo assolutamente al di fuori della loro portata.
Vengono selezionati da una collaboratrice di Suor M. che percorre i villaggi della zona per controllare la vista degli abitanti ed assegnare le priorità di intervento.
Nel reparto per i bambini denutriti ci sono alcuni piccoli pazienti in cura……possono essere malnutriti sia a causa delle scarse conoscenze nutrizionali della madre, che non riesce ad alimentarli correttamente con il poco che ha a disposizione,
sia a causa della parassitosi dovuta all’acqua contaminata o alla incompleta cottura dei cibi per scarsità di combustibile, sia alla vera e propria mancanza di cibo dovuta alla povertà della famiglia: e’ il caso peggiore, quello senza soluzione.
Come terapia nutrizionale si usa un “latte medicato” fornito dall’Unicef tramite i governi, non e’ acquistabile: in pochi giorni i piccoli pazienti migliorano quasi miracolosamente.
L’allattamento al seno e’ fondamentale: spesso a suor M. e’ bastato nutrire le madri perché a loro volta potessero nutrire i figli con il proprio latte.
E’ stata un’esperienza incredibile, non potevo immaginare che avrei visto con i miei occhi quello che tante volte ho letto sulle riviste per la raccolta fondi di molte Ong.
– Soddo, 9 febbraio
Oggi ho conosciuto il mio possibile compagno nel viaggio verso il Sud e la Valle dell’Omo……..ma non e’ stato un incontro esaltante.
B. e’ un giovane brillante e preparato, sta conseguendo una laurea e parla Inglese molto meglio di me: si presenta all’appuntamento ben vestito e con il suo computer portatile.
Quando gli spiego il nostro possibile itinerario avanza dei dubbi sull’opportunità di usare i mezzi pubblici, lui riterrebbe più opportuno e più comodo affittare una Land Cruiser ed assoldare una guardia armata per raggiungere i villaggi più lontani.
Gli faccio presente che il mio approccio e’ diverso, voglio essere il meno invasivo possibile, e comunque non potrei permettermi certe spese.….a proposito, B. mi dice che riterrebbe adeguato un compenso di una cinquantina di dollari al giorno.
Io avevo pensato ad una dozzina di dollari al giorno per il paio di settimane che trascorreremo insieme: in Ethiopia sono una cifra considerevole quasi per chiunque.
Sono demoralizzato, penso che B. non sia la persona adatta ad accompagnarmi e gli spiego che non vale la pena cercare un accordo perché lui non ne sarebbe contento: c’e’ troppa differenza fra quanto io posso spendere e quanto lui si aspettava.
Ed io vorrei viaggiare con un compagno che sia motivato, non con qualcuno che si “accontenta” perché ha bisogno di denaro…..così non sarei soddisfatto neppure io.
Tornando verso la Missione passo davanti alla casa di Anna, l’interprete Amarico-Italiano-Inglese che ho conosciuto ieri durante il viaggio a Ledda.
Mi accoglie molto gentilmente, mi invita a fermarmi per il caffè e chiacchieriamo a lungo: in Italiano lei ed io o in Inglese quando mi rivolgo al marito e alle quattro figlie.
Offrire il caffè ad un ospite e’ una dimostrazione di rispetto ed amicizia, anche solo per la quantità di tempo che si dedica a questa “cerimonia”.
Dopo aver cosparso il pavimento con dei fili d’erba si apparecchia una piccola tavola con le tazzine e si tostano i chicchi del caffè, che prima spandono il loro aroma nell’aria e una volta macinati a mano nel mortaio vengono introdotti nella Jebenà,
una “caffettiera” di terracotta in cui si versa l’acqua bollente e che si mantiene calda sopra un braciere acceso.
Nel frattempo in un altro piccolo braciere si lascia ardere l’Etan, un incenso molto profumato, ma diverso da quello a cui siamo abituati nelle nostre chiese.
All’ospite si offre del pane fatto in casa, che fra l’altro e’ buonissimo, e si serve il caffè con zucchero o burro.
La prima delle tre tazze che tradizionalmente vengono servite e’ la più forte: per servire le altre due si aggiunge solo un po’ d’acqua bollente nella Jebenà, cosicché il caffè diventa sempre più leggero.
Questa “cerimonia” richiede tempo e non si accorda con la fretta dei giorni lavorativi: solitamente in famiglia si svolge il sabato o la domenica pomeriggio…..a meno che non capiti di avere un ospite.
– Soddo, 10 febbraio
Dopo colazione esco per andare a Dubbo: Father A. mi ha invitato alla grande festa che oggi si terrà nella sua parrocchia.
Lungo la strada mi sento chiamare …..Paolo, Paolo…. e’ Selam, una delle figlie di Anna: si offre di accompagnarmi alla stazione degli autobus ed io accetto molto volentieri.
Prendiamo insieme un taxi condiviso e spendendo pochi birr arriviamo alla stazione: ci sono molti mezzi in attesa, ma partiranno solo quando il numero dei passeggeri a bordo non sarà tale da giustificare il costo del viaggio.
Come quasi tutti i bambini e gli adolescenti Selam parla l’Inglese oltre all’Amarico e grazie al suo aiuto prendo un minibus che mi porterà nel villaggio di Areka, dove potrò trovare un moto-taxi per arrivare a Dubbo.
In Ethiopia l’Inglese e’ molto diffuso, ma spesso chi lo conosce meglio sono i giovani ed i giovanissimi, perché fortunatamente oggi l’istruzione e’ molto più diffusa e accessibile di quando i loro genitori o nonni erano in età scolare.
Non dimenticherò il favore disinteressato di Selam e la gentilezza di sua madre Anna: mi piacerebbe ringraziarle “concretamente”, ma non conosco ancora bene gli usi locali, chiederò consiglio a Father A.
Lui mi dirà di comprare loro dei dizionari di Inglese: ….non regalare birr, ma educazione ed opportunità, self helping…. altrimenti continueremo a dipendere dall’aiuto degli altri, anziché imparare ad aiutarci da soli.
Prima di lasciarmi Selam si rivolge a me raccomandandomi: “….you don’t have to pay more than 10 birr for the taxi…..” . Grazie mille, Selam. See you soon!
Finalmente arrivo a Dubbo, il moto-taxi si ferma proprio davanti ad un indaffaratissimo Father A. immerso nei preparativi della celebrazione: ci sono una marea di persone, ci salutiamo e vado alla festa.
Dopo una specie di rosario inizia la celebrazione vera e propria, accompagnata da una fantasmagoria di canti per noi inimmaginabile durante una funzione religiosa: i giovani che accorrono in gruppo cantando e ballando emanano un entusiasmo incontenibile.
E’ davvero bello, vicino all’altare ci sono tutti gli Abba, i sacerdoti, seduti con le loro vesti che portano sul retro un ricamo con i “Tillit di Axum” che ho visto al Museo Etnografico di Addis Abeba.
Vicino agli Abba ci sono due gruppi di ragazze che cantano meravigliosamente, ma non musiche solenni: sono ritmi dinamici e allegrissimi che scandiscono ballando e battendo le mani.
Riesco senza difficoltà a cogliere qualche qualche bella espressione, e’ incredibile come nessuno si infastidisca per il fatto che io scatti delle fotografie: sulle prime chiedevo timidamente il permesso,
poi ho notato che gli stessi partecipanti alla celebrazione amano scattare foto o filmare gli altri fedeli mentre pregano, cantano o si genuflettono.
Alla fine di tutto mi dirigo verso il recinto che delimita l’area della festa e…….due bambini mi prendono le mani fra le loro e ne baciano delicatamente il dorso, mi salutano e se ne vanno senza chiedermi nulla.
Ero completamente impreparato e ne rimango profondamente commosso.
Quando esco all’aperto mi vengono incontro molte persone chiedendomi qualche “birr”, ma non posso accontentare tutti e non sarebbe neppure un buon esempio: con calma cerco di spiegare che ho dato un aiuto ad un ragazzo cieco perché lui ne ha più bisogno di tutti.
Fuori dalla mensa allestita per la festa incontro Father A. , mi siedo con lui e mi chiede come e’ andata con B. : gli spiego la ragione per non ci siamo accordati e subito mi dice che troveremo un’altra persona.
Ha già in mente un ragazzo che potrebbe essere adatto e dovrebbe trovarsi nei paraggi, gli telefona subito.
Beh, direi che sono proprio fortunato, dopo un po’ arriva Selamu, sarà lui il mio compagno di viaggio.
Selamu e’ uno studente, e’ iscritto a Medicina ed e’ ben lieto di allontanarsi da casa per un “viaggio” nel Sud del Paese, di cui finora ha solo sentito parlare.
Finalmente ci accordiamo e ci diamo appuntamento per l’indomani alla stazione degli autobus di Soddo “….at 6 o’ clock, local time….”, cioè a mezzogiorno.
– Soddo, 11 febbraio
Partiamo dalla stazione di Soddo poco dopo l’una, quando finalmente l’autobus si e’ riempito di passeggeri.
Durante la discesa dai circa duemila metri di altitudine di Soddo vediamo il paesaggio inaridirsi e di nuovo molte “traditional houses”, sia tonde con il tetto di rami e paglia, sia squadrate con il tetto di lamiera.
Ogni tanto ci fermiamo lungo la strada per far salire o scendere qualcuno con il suo bagaglio: come sempre i carichi più pesanti sono portati dalle donne…..ormai non me ne stupisco più.
Avvicinandoci al lago Abaya tutto diventa nuovamente verde e incontriamo grandi coltivazioni di banane, ma non riesco a fotografare nulla, dall’autobus e’ quasi impossibile.
Arba Minch si trova a circa 1.400 metri di altitudine ed il clima e’ molto più caldo rispetto all’altopiano, ma la città e’ ricca d’acqua e si trova sulle sponde di due laghi, il Chamo e l’Abaya….quest’ultimo infestato dai coccodrilli.
Non riusciamo nemmeno ad avvicinarci al lago Abaya perché dopo il verificarsi di alcuni attacchi dei coccodrilli alle persone il governo ha fatto evacuare le case vicino alla riva e stanziato delle guardie armate che impediscono l’accesso alle sponde del lago.
La sera andiamo a dormire stanchissimi, Selamu e’ crollato sul letto con la televisione accesa: sì, non abbiamo l’acqua corrente, ma in camera c’e’ il televisore.
Spengo tutto, sciolgo la zanzariera di Selamu e me ne vado a nanna anche io.
Come al solito mi sveglio prima dell’alba e aggiorno il mio diario fino al nostro arrivo ad Arba Minch, finalmente sono in pari.
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