Da qualche anno sto girando per conto mio alcuni stati balcanici poco conosciuti, molto frammentati, molto travagliati, molto strategici. Nel 2015 è stato il turno di un percorso Sud-Nord attraverso gli stati che erano stati interessati alla guerra del Kosovo di fine secolo XX°. Non parlerò molto di arte e paesaggi (che pure ci sono eccome!) ma soprattutto di incontri e sorprese.
Lunedì 1 giugno: REGGIO EMILIA – TIRANA – POGRADEC
In partenza, la tensione è maggiore del solito, credo sia l’età. Forse perché so quanti inconvenienti possono insorgere, soprattutto quando si viaggia da sole. Quando anni fa incontravo una della mia età in giro con lo zaino, mi sembrava un po’, come dire … fanatica, una specie di vecchia hippie. Chissà ora come mi vedono gli altri: una sorta di nonna Abelarda?
Che poi in realtà non ho uno zaino, ma uno zainetto, delle misure prescritte da Ryan Air per il bagaglio in cabina. Ma tanto è estate, non mi servirà molto, ho ai piedi gli scarponi ingombranti e in vita un marsupio decisamente capace.
L’avventura di un viaggio in effetti inizia prima, quando ci si organizza, si pianifica il percorso, si cercano i modi per raggiungere posti inusuali, per incontrare persone interessanti, si calcola quante mutande portare, quanto contante, si preparano tabelle con i cambi e gli alfabeti locali, si annotano indirizzi e numeri di telefono delle ambasciate (perché non si sa mai), e così via.
Ho seguito il consiglio del mio amico albanese Bashkim: anziché volare su Skopje, ho preso il volo su Tirana. Da lì, ci sono pullmini privati che portano a Pogradec, vicino al confine. Il luogo di partenza dei pullmini è in periferia, in un luogo assolutamente anonimo. Teoricamente parte un pullmino all’ora, in realtà si sale e si aspetta una partenza misteriosa in orario misterioso, un po’ come in Africa. L’autista guarda distrattamente il traffico, non sembra avere intenzione di partire. Finalmente si decide ad avviare il motore. Accanto a me ho Vladja, una ragazza che vive alla Spezia e parla bene l’italiano (come quasi tutti in Albania, del resto).
Lunga sosta in un resort perché bisogna attaccare al pullmino un van con una giumenta e il suo puledro, ma la giumenta non ne vuole sapere di entrare nel van, scendono tutti, chi per dare una mano chi per passare il tempo. Dopo un po’ ci ferma una pattuglia di polizia che probabilmente ha qualcosa da ridire su un van per animali attaccato a un pullmino. Lunga discussione con l’autista ma poi la cosa si sistema in qualche modo. Poi in salita ci fermiamo perché occorre mettere acqua nel radiatore. Poi gli ultimi chilometri sono a 30 all’ora perché la strada è sterrata, credo la stiano rifacendo, ma così ho modo di godere la luna piena che si riflette nel lago di Ohrid. Arrivo a Pogradec alle 21 passate. Per fortuna, ho prenotato all’Hotel Enkelana, unica prenotazione del viaggio.
Martedì 2 giugno POGRADEC – SVETI NAUM – OHRID
Pogradec è una tranquilla cittadina lacustre, molto lontana dal traffico di Tirana. Salgo di prima mattina sul bus per Tushemist, l’ultimo paesino prima del confine. Pochi minuti di viaggio, poi mi avvio a piedi al confine. Sono tre o quattro chilometri, timbro di uscita, timbro di entrata, sono in Macedonia. Un altro paio di chilometri per il bel Monastero di Sveti Naum, pieno di pavoni. E’ uno dei luoghi più conosciuti della Macedonia, affacciato sul lago, con accanto diverse sorgenti e dove gli astuti monaci hanno installato ristorante ed albergo. Da lì, bus per Ohrid.
Nanuka mi blocca sul lungolago di Ohrid (Ocrida). Resta quasi sorpresa quando accetto la sua offerta di una camera in casa sua, limitandomi a chiedere di vederla. Probabilmente è da ore che cerca ospiti. E’ vicino al lago, in un vecchio condominio titino dall’ascensore preoccupante, ma è pulita, luminosa e c’è acqua calda. Contrattiamo 5 €, biancheria compresa. Nanuka è infermiera in pensione, ha l’aspetto trascurato, parla poche parole di inglese. Mi offre caffè alla turca, si assicura che prima di uscire abbia con me un ombrello, perché forse pioverà, e che abbia ben chiaro l’indirizzo. Al chiosco delle informazioni turistiche l’impiegata sembra non avere mai sentito nominare il Monastero dove conto di andare domani, mi dice solo dove posso prendere il bus per Struga. Orario dei bus? Boh, lei che ne sa!
Ohrid è patrimonio Unesco, poco conosciuta dagli italiani, ma ricca di monasteri e chiese bizantine (talvolta soggetti a restauri troppo pesanti, a dire il vero), scavi archeologici romani, stradine tranquille, case ottomane, lago limpidissimo, grande come il Garda.
Faccio un giro al mercato: la verdura ha prezzi talmente bassi che fatico a calcolarli in euro, si tratta di pochi centesimi. Una produzione tipica locale sono le perle di Ohrid, che si ricavano dalla lavorazione di conchiglie e di una pasta tratta da un pesce, il Plashica, che si trova solo in questo lago.
Mercoledì 3 giugno. OHRID – STRUGA – MONASTERO SVETI JOVAN BIGORSKI
Ohrid alle 7,30 è ancora semiaddormentata. Il bus per Struga passa dopo pochi minuti e mi lascia in centro. Vagabondo alla ricerca della coincidenza per Debar. Pare che l’inglese non lo sappia nessuno. Con le mie poche parole di tedesco riesco a capire che devo andare a una stazione bus a un paio di km. Lì mi si avvicina una tedesca sui quaranta. E’ di Stoccarda, ha viaggiato molto in Italia. Sta facendo il mio percorso all’inverso, da Pristina a Tirana. E’ ingegnere meccanico, appassionata di locomotive, ha perfino il patentino di guida apposito! A Pristina ha visto una locomotiva che le piaceva e ha chiesto se poteva salire per avviarla. Non solo gliel’hanno lasciato fare, ma anche guidarla per un po’! E’ fuori di sé dalla gioia. Anche a lei la Macedonia ricorda un po’ l’Africa (è stata in Senegal) per i ritmi decisamente blandi ed orari imprecisi.
Un altro aspetto africano sono le nenie ad alto volume che accompagnano ogni viaggio; e le ciabatte di servizio che si trovano in ogni alloggio.
Lungo il percorso salgono verso i monti molti camion, anche a rimorchio, carichi di pecore: anche qui la transumanza si è meccanizzata.
Mi faccio lasciare al bivio per il monastero di San Giovanni Bigorski e dopo un paio di km di tornanti ripidi arrivo. La guida Lonely dice che si può dormire lì, ma un monaco sui 50 anni dagli occhi di ghiaccio (scoprirò che è l’abate) mi dice che non si può, non è per turisti! Insisto, esagero il peso dello zaino, faccio notare che non è certo che nel pomeriggio ci siano bus per Debar. Cede, ma chiede 10 € (come mi proponesse una cifra ingente). Altro che la camerata a 8 letti indicata dalla guida! La camera è fresca e pulitissima, bagno nuovo, un inserviente sta passando aspirapolvere sui tappeti del corridoio. Fuori c’è caldo, resto a godermi la stanza. Squilla ogni tanto una campanella. Le tante finestre incorniciate in legno su diversi livelli e l’intonaco chiaro mi ricordano i monasteri del Ladhak. Ma qui è tutto più curato, con giardino ordinato e fiori alle finestre. L’abbondanza di sorgenti alimenta una serie di vasche per bere e per abluzioni, per cui si avverte il rumore costante di acqua che scorre.
Parecchi giovani inservienti (novizi?) tengono il posto immacolato, sfregano campane, lavano vetri.
I monaci sono tutti piuttosto giovani, tra i trenta e i quarantacinque anni e, devo dire, aitanti e dal passo energico. Uno, alto, barba e capelli lunghi, come tutti, tonaca nera che sfiora gli stivali e stretta da un cinturone, cammina serio ed altero, con rapido passo da cow-boy.
A metà pomeriggio seguo la messa. Ero incerta se potevo entrare in chiesa, non essendo cattolica ortodossa, ma l’abate mi ha visto sulla porta e con un gesto energico mi ha invitato ad entrare. E’ affascinante, uno dei più bei ricordi del mio viaggio, anzi dei miei viaggi. Non conosco la simbologia rituale, che è però evidente; i monaci si spostano secondo una coreografia ben delineata, salmodiando continuamente ma con ritmo musicale diverso, che a volte assume frequenze quasi marziali; il cow-boy indossa un mantello nero a pieghe di stoffa leggera che si allarga ad ogni suo movimento; le icone e l’enorme lampadario lampeggiano. I fedeli sono quasi tutti uomini, giovani e prestanti. Ci sono solo due altre donne e una bambina, ma sembrano partecipare anche loro al rito come osservatrici, mentre gli uomini si aggirano con sicurezza nella chiesa, baciano ripetutamente le icone e le mani dei sacerdoti.
A fine messa, vengo invitata a partecipare alla cena comune (non so se anche questa faccia parte del rito, ma certo ci sono tutti quelli che erano a messa). In silenzio, mentre uno dei monaci legge testi sacri. Sono ovviamente alla tavola delle donne: focaccia di formaggio e verdure, yogurt e cioccolatino. Sulla tavola, in comune, piatto di spaghetti freddi, burro, ketchup ed acqua. Conto 16 monaci e una trentina di uomini. Al suono di un campanello ci si alza tutti insieme e si esce, prima i monaci. Sul piazzale, alcuni dei fedeli scaricano dall’auto sacchi di patate e cipolle, offerte per la cucina del monastero.
La fisicità militaresca di monaci e fedeli mi confermano che qui nei Balcani la religione ha una fortissima carica di appartenenza nazionale e di stimolo alla combattività. Il monachesimo da queste parti è sempre stato a favore del nazionalismo macedone contro l’impero ottomano. Dall’esterno, il monastero è una vera e propria fortezza difesa da mura. Per non parlare del cannone di legno nel piazzale del monastero. Nel 1903 si preparava un’insurrezione contro gli ottomani e, in mancanza di bronzo, i bravi monaci ebbero l’idea di creare cannoni di legno, che veniva fatto bollire e ricoperto di olio, rinforzato con bande di ferro. A quanto pare, funzionavano abbastanza, perché ne vennero prodotti diversi in tutto il territorio circostante. Quello del monastero Bigorski sparò il colpo che diede il via alla rivolta.
Dall’altra parte della valle, sul monte di fronte, si erge una moschea con due altissimi minareti, quasi a sfida.
Giovedì 4 luglio – MONASTERO BIGORSKI – SKOPJE
Scendo all’alba i tornanti verso la strada principale. Mentre aspetto il bus, si ferma un tizio ad offrire un passaggio. No grazie. Poi altra offerta da parte di una famigliola, padre, madre (che scende dall’auto apposta per segnarsi davanti a un’icona lungo la strada), figlia tetraplegica. Perché no. La ragazza, Julia, parla spagnolo; ci intendiamo per fare quattro chiacchiere. Ha imparato lo spagnolo seguendo alla TV le telenovelas!
A Skopje trovo un alberghetto nel quartiere del Bazar e mi avvio verso il centro. In un Internet point gratuito faccio conoscenza con Irina, giornalista disoccupata che odia il governo. Skopje è una sorprendente accozzaglia di centinaia di statue; se ne trovano a ogni angolo e ancora il governo ne sta erigendo. Nella piazza principale, ovviamente, un immenso Alessandro Magno a cavallo, 23 metri di bronzo su una base di 10 metri, eretto da pochi anni. Nei pressi, suo padre Filippo. Dappertutto nuovi palazzi governativi appena finiti o in costruzione, con colonne e dorature, anche un enorme arco trionfale.
I macedoni pare non siano molto contenti di questa frenesia edile, non tanto per ragioni estetiche quanto per i pesanti costi, in un paese molto povero. Giro per chilometri, anche se fa molto caldo. I nomi delle strade sono in cirillico, mi aiuto con i miei lontani ricordi di greco antico. Molti cani randagi, ma tutti con una specie di piastrina su un orecchio, credo significhi che sono stati vaccinati o qualcosa del genere.
Venerdì 5 giugno SKOPJE – PRISTINA
In mattinata, mi incontro in Ambasciata con la responsabile alla Cultura che poi mi accompagna in Università, a conoscere una delle docenti di italiano. Mi aveva incuriosito, mentre preparavo il viaggio, un articolo che avevo trovato in Internet da cui avevo scoperto quanto l’italiano fosse conosciuto e studiato in Macedonia; perciò avevo chiesto un incontro, che mi era stato gentilmente e rapidamente accordato. Con loro parlo del sorprendente interesse che i macedoni hanno per la nostra lingua, che viene insegnata fin dalle elementari, ma che ora il governo prevede di scalzare in favore del tedesco, per ragioni politiche (ottenere l’appoggio della Germania per l’ingresso in UE); i macedoni sono melomani, la lirica italiana è seguitissima. Sono molti i dipartimenti di italianistica nelle università. La professoressa ha tradotto molti nostri scrittori che hanno avuto successo in Macedonia: Buzzati, Calvino, Eco, Deledda, Pirandello, Rodari, Leopardi e tanti altri, addirittura le liriche di Michelangelo e i pensieri di Leonardo, le novelle del Decameron; proprio la sera prima ha ricevuto un premio per la sua traduzione della Gerusalemme Liberata!
Il pullmino per Pristina è stipato, benché i collegamenti con il Kosovo siano molto frequenti. E’ evidente che le relazioni tra i due paesi sono molto strette.
Attraverso le zone settentrionali della Macedonia, abitate da una buona percentuale di popolazione di etnia albanese e, benché la Macedonia sia l’unico stato che si è reso indipendente dalla Federazione Yugoslava senza conflitto armato, ogni tanto si verificano episodi di tensione. Poche settimane prima della mia partenza, il 10 maggio, a Kumanovo, una cittadina a poche decine di chilometri dal confine, si è verificato un episodio che, più che semplice scontro, può essere considerato una vera e propria battaglia: trenta ore di fuoco incrociato tra forze dell’ordine macedoni e “terroristi venuti dal Kosovo” (secondo i comunicati ufficiali). L’attacco ha provocato 22 vittime, 8 tra la polizia e 14 tra i terroristi, oltre a decine di feriti e notevoli danni materiali.
In circa quaranta minuti da Skopje si è già al confine.
Pristina non sembra affatto coinvolta nel delirium costruens di Skopje; nonostante il suo nuovo status di capitale, le case sono in genere sui tre o quattro piani, col tetto a spioventi; solo i nuovi edifici governativi o alcuni alberghi hanno un’architettura moderna su molti piani. Ritorno all’alfabeto latino e all’euro; ma neanche Pristina rinuncia a due simboli balcanici: il culto per Madre Teresa e per Skanderbeg, la cui statua, più piccola ma uguale a quella di Tirana, campeggia all’inizio della passeggiata pedonale, al centro della città (qualcuno gli ha cinto il collo con una bandiera albanese, tanto per sottolineare l’etnia prevalente in Kosovo). A Nane Teresa è dedicata la strada principale della capitale, ma la toponomastica delle vie centrali riserva alcune sorprese: via Bill Clinton e via Garibaldi!
Verso sera, la passeggiata è affollata di famigliole e bambini che pattinano; è altissima la percentuale di ragazzini e ragazzine, chiaramente impegnati ad esibirsi facendo finta di non volersi esibire. Abbondano minigonne, canottiere, capelli al vento. Nei numerosi bar, pub, ristorantini, pasticcerie campeggiano vistose pubblicità della birra Peja, di produzione locale. Anche se la popolazione kosovara è in prevalenza di religione islamica sunnita, pare proprio che il fondamentalismo qui non abbia attecchito.
Sabato 6 giugno PRISTINA – PEJA – DECANI – PRISTINA
Chiedo un biglietto per Peć, ma vengo corretta: “Peja”. E già, Peć è il nome serbo, Peja quello albanese.
La Serbia non ha mai riconosciuto l’autonomia del Kosovo, la cui esistenza come Stato non è accettata neanche da molti Stati, anche dell’UE. In pratica, il paese è diviso in due: per la maggior parte è abitato prevalentemente da albanesi di religione islamica, il nord è abitato da serbi di religione ortodossa, con propria amministrazione.
Il bus fila su strade lisce come in Italia ormai ce le sogniamo. Vedo intorno tante case nuove, e resto perplessa. Mi chiedo come venga pagato tutto ciò, scoprirò poi l’importanza delle rimesse dai kosovari all’estero. Intanto, il bigliettaio gentilmente gira tra i passeggeri offrendo caramelle al caffè.
A pochi chilometri da Peja / Peć , in località Belo Polje, c’è una base delle forze KFOR, il Camp Villaggio Italia. KFOR ha compiti principalmente di deterrenza contro possibili forme di ripresa delle violenze e degli interventi armati e di collaborazione con le autorità locali per migliorare la sicurezza e stabilità della zona. Mi sono fatta anticipare ieri da una telefonata, spero di poter fare due chiacchiere con qualcuno per chiarirmi alcuni dei dubbi che mi sto ponendo.
Un giovanissimo militare austriaco mi controlla passaporto e zainetto. Vengo accolta da una soldatessa italiana. Mentre mi precede verso gli uffici ne approfitto per cercare (inutilmente) di capire come si faccia a preparare la disciplinatissima crocchia che ferma i capelli delle nostre militari. Vabbè, pura curiosità … a me, quando (parecchi anni fa) avevo i capelli lunghi, se provavo a raccoglierli mi scivolavano sempre da tutte le parti …
Prendo un buon caffè al bar della Base con due capitani. Il responsabile della comunicazione, oltre a essere un gran bel ragazzo, è cordiale, allegri occhi azzurri, l’atteggiamento positivo di uno che, dopo avere fatto due periodi di missione in Afghanistan (“Andavo in giro con il giubbotto antiproiettile, l’abbigliamento tattico, insomma, come si vede in televisione …” sorride) sta ora per finire sette mesi in uno scenario teso, ma decisamente più calmo. Parliamo delle funzioni di KFOR, delle ragioni del conflitto, di jahidismo nei Balcani, di kosovari all’estero, di emigrazione clandestina.
E allora andiamo a vederli, questi monasteri che hanno bisogno di protezione. Non c’è da scherzare: moschee e monasteri sono stati attaccati vicendevolmente e spesso distrutti durante la guerra etnica. Essere monaci serbo-ortodossi in zone quasi completamente di etnia albanese non era e non è facile. Quello di Peja, tenuto da suore, è circondato da un giardino curato ed ordinato come solo le suore riescono ad ottenere. Nel parco, un enorme gelso è considerato il più antico albero kosovaro, dato che pare abbia più di ottocento anni. C’è un silenzio assoluto. La sua importanza (che lo mette appunto particolarmente a rischio), oltre alla ricchezza dei suoi affreschi è dovuta al fatto che è qui che viene tradizionalmente nominato ed intronato il Patriarca della Chiesa Serbo-ortodossa.
Decani è un paese squallido, pieno di cani randagi che vivono tra la spazzatura; quando butto loro qualche pezzo di pane, sembrano increduli di ricevere un dono. Il monastero, a cui si arriva con una passeggiata di un paio di chilometri, è immerso nei boschi, protetto da militari italiani e sloveni. Mi aspettano alcune sorprese: intanto la chiesa non è costruita in stile ortodosso, ma in un imponente romanico italiano (progettato da un francescano di Cattaro, all’epoca territorio veneto); poi ci trovo una comitiva di lombardi appassionati di archeologia e storia dell’arte, ai quali mi aggrego; e infine il monaco che fa loro da guida parla un italiano estremamente fluente. Come mai? Be’, perché è di Catanzaro, si chiama Francesco.
La necessità di proteggerlo nasce dal fatto che conserva, tra i vari tesori d’arte, alcuni simboli di fondamentale importanza per l’identità serba:
– la tomba del santo re Stefano (di cui padre Francesco elenca l’incredibile serie di guai che dovette sopportare) che ogni giovedì viene aperta per la venerazione; pare che il corpo, incorrotto, spanda profumo di rose e compia miracoli. Mentre ascoltiamo la spiegazione, arriva una comitiva di pellegrini, venuti appositamente dal Montenegro per venerare la tomba. L’abate la apre appositamente per loro: uno a uno, si chinano a baciarlo e si genuflettono. Poi veniamo autorizzati anche noi ad avvicinarlo. Mi chiedo come sarà il corpo incorrotto; ma resto delusa, perché è coperto da maschera e mantello; e niente profumo di rose.
-un enorme candeliere ricavato, si dice, dalle armi dei serbi che combatterono nella battaglia di Kosovo Polje. L’orgoglio serbo, stranamente per noi, nasce dal ricordo di questa battaglia, in cui, eppure, furono disastrosamente sconfitti, nel 1389, da 60.000 turchi. Fu una strage: dei 14000 serbi ne sopravvissero 700. Un’intera generazione scomparve, tutta la nobiltà fu annientata. I merli dei dintorni ci si precipitarono numerosissimi, attirati dall’ odore dei cadaveri e del sangue, nella piana della battaglia, poco lontano da Pristina, che da allora venne chiamata Kosovo Polje, Piana dei Merli.
Eppure fu questo disastro a sancire la nascita dell’identità serba, ed ecco anche perché per la Serbia è inaccettabile la perdita del Kosovo, che nel suo stesso nome ricorda il fondamento dell’orgoglio nazionale.
Si sta facendo tardi, temo di perdere il bus per rientrare a Pristina; non posso seguire il resto della presentazione. Corro fuori, ripasso al posto di blocco per ritirare il mio passaporto. Alcuni cagnoni hanno fatto amicizia con i militari; e infatti, i furboni, sono assai più ben pasciuti di quelli che ho visto in paese …
Ho fatto bene a correre perché così riesco a prendere il bus che mi porterà a Pristina per le otto di sera. Mentre rientro in albergo a piedi, guardo il cielo sperando di vedere gli stormi di merli, o corvi, di cui ho letto nei libri. Giornalisti e scrittori venuti qui, in genere ai tempi della guerra, sostengono di avere visto al tramonto numerosi stormi di uccelli neri nel cielo di Pristina, e si lanciano in cupe descrizioni ma io vedo solo cornacchie che becchettano nelle aiuole e rondini.
DOMENICA 7 GIUGNO PRISTINA – PRIZREN – PRISTINA
Oggi, a Prizren. Salgo rapidamente alla fortezza in restauro, poi seguo un sentiero che si addentra nel bosco, senza sapere dove vada. E’ più lungo del previsto, ma frequentato da famigliole, coppiette, bambini, ciclisti. Dopo un’oretta di cammino, scende verso il fiume: gente che fa pic-nic (con auto rigorosamente accanto), giochi per bambini, ristorantini, baretti: una qualsiasi tranquilla domenica di una qualsiasi tranquilla cittadina europea. Eppure, nel 1999, queste zone, tra esercito jugoslavo, UCK e NATO, sono state tra le più devastate e bombardate.
Trovo il centro affollatissimo, bar strapieni, musiche, un rasta balla con amici in piazza.
Risalgo alla chiesa ortodossa di San Salvatore, ancora distrutta. Era protetta da KFOR, ora c’è solo un vecchio guardiano. Il quartiere intorno, quello che era serbo, ha molte case in rovina con ancora le tracce degli incendi, ma anche molte in costruzione.
Bisogna che mi decida a mangiare a qualcosa, come al solito in viaggio mangio troppo poco. Ma il centro è troppo affollato e rumoroso, torno verso uno di quei ristorantini lungo il fiume. Non faccio un tempo a sedermi che Toto Cotugno comincia a cantare “Sono un italiano”! E segue una compilation di musica italiana dell’epoca, Celentano, Battisti, Baglioni. E i Ricchi e Poveri che annunciano, premonitori: “L’Europa non è lontana, c’è una canzone italiana” (e chi se la ricordava questa?).
Una coscia di pollo accuratamente disossata e allargata a bistecca, contorno di carote e cappuccio, enorme insalata di pomodori: 3 (tre) euro. La musica è gratis.
A un angolo del percorso pedonale un gruppetto di signore ben oltre la mezza età improvvisa alcuni minuti di ballo tradizionale; una di loro ha il costume tipico, le altre sono vestite all’occidentale. Poi si allontanano, continuando la loro passeggiata. A proposito, qua le donne tengono tranquillamente la borsetta a mano o al braccio (non a tracolla di traverso, come siamo costrette a fare noi) e non ho mai visto sbarre alle finestre. Parecchi negozi non hanno neanche la saracinesca.
Proprio davanti alla moschea, in una piazzetta, tantissimi giovani ballano i “tumtum” delle nostre discoteche. Non ho visto discoteche in Kosovo, forse non ci sono, ma tanto qui si balla la domenica in piazza. Ragazzi e ragazze, affollati e rumorosi, stretti insieme; sui tavolini birre, succhi di frutta, acqua. Alla faccia dell’Isis e delle sue minacce. Minigonne, canottiere, sculettamenti a ritmo. Si alza un drone a riprendere la festa.
Passa un corteo nuziale di auto: molte donne indossano quegli incredibili abiti tutti strass, pizzi, ori e cristallerie varie che ho visto in tanti negozi. Un ragazzino in piedi fuori dal tettuccio indossa l’abito tradizionale albanese, berretto a cupola di feltro bianco e gilet rosso ricamato di nero.
Alla sera, a Pristina ci sono i fuochi d’artificio. Chissà se li fanno ogni domenica.
LUNEDI’ 8 GIUGNO PRISTINA – SKOPJE
Come faccio spesso quando sono all’estero, mi infilo nella Biblioteca Nazionale, che qui è una stranissima costruzione che la guida Lonely giustamente definisce “un’armatura che racchiude uova di gelatina”.
Cerco quali scrittori italiani sono stati tradotti. Sono molti, sia in serbo che in albanese. Trovo anche molte opere liriche, sia in DVD che in libretto. E 15 edizioni di Pinocchio. Niente Dario Fo (però c’è Fabio Volo…)
Prima di tornare in Macedonia, ho appuntamento con un importante funzionario dell’ UNMIK. L’UNMIK (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo) è l’ente che era stato creato dall’ONU nel 1999, quando gli scontri etnici spinsero le Nazioni Unite a intervenire militarmente con la Kosovo Force (KFOR) e a creare contemporaneamente un’amministrazione provvisoria che si occupasse delle principali funzioni civili e di facilitare il passaggio del Kosovo ad una propria amministrazione.
Trovare la sede UNMIK non è stato facile. Ieri in centro ho provato a chiedere ma pareva che nessuno sapesse dove si trova, neanche i poliziotti. Casualmente ho trovato la sede EULEX , dell’Unione Europea, e solo lì ho avuto indicazioni. Stamattina il tassista ha dovuto a sua volta chiedere ai colleghi. Il funzionario che incontro mi spiega che probabilmente fanno finta di non sapere … il fatto è che ultimamente la missione UNMIK è vista come un corpo estraneo e i Kosovari vogliono fare da soli. Anche con lui parliamo ovviamente delle funzioni UNMIK, passate ed attuali, del disastroso problema economico, della corruzione che frena gli investimenti stranieri ( a differenza di quanto è avvenuto in Albania), della forte infiltrazione economica e culturale della Turchia.
Al rientro a Skopje, davanti a numerosi palazzi governativi ci sono le tendopoli organizzate dall’opposizione che accusa il governo di corruzione, brogli elettorali, controllo di stampa e magistratura, perfino omicidi insabbiati. La più vasta è davanti al Palazzo del Governo. Sono lì da molte settimane, mettendo letteralmente sotto assedio i palazzi governativi.
Un assedio però pacifico e tutto sommato organizzato; il codice di condotta, pubblicato anche in inglese su vari manifesti, parla chiaro: intanto, il Governo deve essere attaccato per i problemi interni e non si fa attività antipatriottica; e non si sporca, non si beve alcool, non si origliano le conversazioni altrui.
Non sembrano rivoltosi, almeno non al momento: chiacchierano, giocano a ping-pong o a scacchi, come fossero campeggiatori a Jesolo. Vedo perfino, sotto una tenda, un paio di illogiche poltrone rivestite di velluto, probabilmente portate da un appartamento dei dintorni per stare più comodi. Le età sono varie, l’età da pensione mi pare abbondi. La polizia li controlla con discrezione; sono stati allestiti bagni chimici. Di sera, organizzano educati concertini.
Strana, la Macedonia, per noi italiani. Soprattutto pensando a come sono ‘sti balcanici quando veramente si scatenano.
MARTEDI’ 9 GIUGNO SKOPJE
Ha ancora sorprese, in questo ultimo giorno macedone.
Al solito Internet Point rivedo Irina, la giornalista disoccupata conosciuta casualmente qualche giorno fa. E’ sempre qui, ostinatamente attaccata al computer alla ricerca di lavoro.
Facciamo due chiacchiere davanti a un caffè.
Quando è morto Tito lei aveva 4 o 5 anni; sì, forse con Tito c’erano dei vantaggi. La sanità pubblica, per esempio. Ora è a pagamento, oppure occorre rivolgersi a qualche ONG, o avere un servizio scadente.
Mi parla della possibilità di ottenere il passaporto bulgaro. Il passaporto bulgaro? Sì, lo fanno tanti, ma lei, patriottica nonostante le delusioni dal governo, non vuole chiederlo, perché teme che la disponibilità della Bulgaria a concedere passaporti, cioè in sostanza a dare la cittadinanza europea, sia legata alla volontà di espandersi in Macedonia.
E allora cerco di chiarire questa faccenda del passaporto bulgaro. E una delle persone più adatte per indagare su questo è una funzionaria dell’ EEAS, European External Action Service, in pratica il braccio diplomatico dell’ Unione Europea.
E’ giovane, attiva, professionale e sorridente. E parla un ottimo italiano. E conosce la mia città. Perché? Non credo che siano molti gli abitanti di Skopje che conoscono Reggio Emilia. Be’, perché ha collaborato tanti anni fa, ai primi anni ’90, con una ditta reggiana, l’Italtrend. Ma l’Italtrend è stata la ditta in cui ho cominciato a lavorare io, ancora prima di laurearmi, quando era stata appena fondata! Sorprendenti contatti si allacciano a distanza di decenni … Mi parla dell’interesse della Macedonia a entrare in area UE, dell’opposizione della Grecia, del Turkish Stream, il gasdotto che provenendo dalla Turchia, attraverso Grecia e Balcani si prevede porterà metano in Europa, dei passaporti bulgari molto ambiti, perché in pratica sono un riconoscimento di cittadinanza europea. E sono anche facili da ottenere: basta dichiarare di sentirsi bulgaro, parlare la lingua (che è molto simile al macedone, quindi si impara facilmente) e dimostrare di avere un antenato bulgaro. E poi di ONG, di migranti che attraversano i Balcani, di accordi economici con UE … davvero un incontro interessante.
Nel pomeriggio, seguo la bella passeggiata pedonale profumata di tigli che si allontana per alcuni chilometri verso ovest lungo il fiume Vardar fino ai vasti curatissimi giardini Gradsky.
Sì, sono soddisfatta.
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Si parte per il Mali! Alle 8.25 abbiamo il volo da Genova, arriviamo a Roma e lì incontreremo il gruppo di Avventure nel Mondo. Abbiamo avuto pochi contatti con i nostri compagni di viaggio, solo qualche mail con la capogruppo. Io non ho contattato nessuno perché non voglio immaginare come saranno i componenti del gruppo prima di partire, preferisco scoprirlo “sul campo”, perché troppe volte l’apparenza inganna. L’appuntamento è alle 11, abbiamo tutto il tempo di fare le cose con calma e di prendere l’ultimo caffè italiano a Fiumicino. Da Roma voliamo ad Algeri, dove dobbiamo aspettare 5 ore il volo per Bamako. Chiacchieriamo con alcuni componenti del gruppo e ci prendiamo un caffè algerino. L’aeroporto è piuttosto nuovo e deserto, siamo solo noi e poche altre persone. Il volo per Bamako prosegue per me in dormiveglia.. sono circa 4 ore ma mi sembra lunghissimo… Arriviamo a Bamako alle 23, per fortuna con noi arrivano anche tutti i bagagli e quindi andiamo in albergo: squallidissimo, nel classico stile Avventure nel Mondo. Vado a dormire tardissimo, perché voglio riorganizzare il bagaglio e farmi una doccia.
Mali di fine secolo – Diario di viaggio
Il viaggio di ritorno a Itaca di Ulissa è stato lungo dieci anni, per far ritorno alla sua isola, vagando per il Mediterraneo. Ne ho impiegati di più e visitato molti paesi e città del mondo. Ho trascorso pezzi di vita altrove, per lavorare, ma anche per scoprire, per ritornare e poi raccontare per ricordare. La mia Itaca non è un’isola, ma una penisola, l’Italia. Lo stesso, il cammino è stata la meta, cioè il ritorno in Italia, dopo i viaggi. Ho viaggiato, quindi, non da Itaca a Itaca, ma dall’ Italia all’Italia.
Goa, tra la salsedine e l’incenso – Diario di viaggio
E’ un posto strano Goa. E’ un’India che non è India.
Quando arriviamo all’aeroporto di Dabolim, dopo ore di aerei e attese, veniamo avvolti dall’afa e da una folla di persone. Poi ci aspetta un’altra ora e mezza di strada polverosa e trafficata, fino ad arrivare a Palolem.
Goa è lo stato più piccolo, potrebbe facilmente passare inosservato sull’enorme mappa del Paese, ed è anche il più ricco, con un PIL pro capite di due volte e mezzo la media nazionale. Il motivo è legato al suo passato e al turismo, che attira ogni anno migliaia di persone lungo i suoi 100 Km di costa.
Uganda… un sogno lungo 30 anni – Diario di viaggio
Sognavo l’incontro con i gorilla da quasi 30 anni. Da quando vidi il film “Gorilla nella nebbia”. Allora mi sembrava una meta irraggiungibile, una cosa impossibile da concretizzare ed invece finalmente il sogno si è realizzato.