VERSO IL DESERTO DEL GOBHI - Mongolia

Agosto 2016 - Diario di viaggio di Susanna Pierini
A volte le decisioni prese d’istinto sono le migliori e così è stato per la scelta di questa destinazione, è stato veramente il destino a determinarla perché in realtà non viaggiamo mai in agosto e di rado in viaggi di gruppo preconfezionati e perché avevo già quasi completamente organizzato il nostro viaggio in Malawi. Però tra le tante newsletter di tour operator che ricevo, una mi proponeva una meta evocativa, la Mongolia, che da sempre pensavo di raggiungere con la transiberiana… ma a volte prendere una via più comoda riserva comunque splendide scoperte!
Non ci aspettavamo di arrivare nella capitale Ulaan Baatar, 1600 metri sul livello del mare, un luogo noto per le temperature rigide, e trovare 36°, un caldo insolito anche ad agosto, non un buon segnale dal punto di vista delle variazioni climatiche. Nel tragitto in bus dall’aeroporto al centro città, si percepiscono subito i tratti contrastanti di questa città, la prima modernità importata dagli anonimi edifici sovietici e l’aspetto tradizionale di accampamento nomade che convivono ora con gli immancabili grattacieli in vetro, segno universale del cuore finanziario anche in questo paese enorme e poco abitato. Frastornati per il lungo viaggio aereo e poco preparati all’afa, il nostro primo approccio alla Mongolia è a tavola, il modo migliore per fare conoscenza del gruppo con cui condivideremo le prossime due settimane, tra una chiacchiera e una pietanza locale.
I GIORNI A ULAAN BAATOR

Il tempo previsto per conoscere Ulaan Baatar non è molto ma la città è una piacevole scoperta. Si parte dal Monastero buddista di Gandan, uno dei pochi risparmiati dalle distruzioni staliniste, dove alle 9,00 ha luogo tutti i giorni una preghiera annunciata dai giovani monaci che suonano trombe di conchiglia dalle torrette in legno dipinto di verde, giallo e rosso. È il segnale che precede l’uscita dell’abate dallo spazio privato per recarsi in preghiera presso il tempio d’oro. Gli edifici del complesso monastico hanno tetti in tegole di ceramica vetrificata verde bosco, con i terminali zoomorfi, all’interno si scorgono offerte in burro colorato e una teoria di statuette del Buddha, fuori sono contornati da file di ruote di preghiera che girano azionate dalle gesto rituale dei fedeli. Più discosto in posizione sopraelevata si erge la costruzione che ospita l’enorme Migjid Janraisig o Avalokitesvara, l’immagine del bodhisattva della compassione, alto oltre 26 metri, una replica recente in gesso dorato, di quello in bronzo che i sovietici avevano fuso nel 1938. La strada che conduce al tempio è disseminata di piattaforme inclinate su cui i fedeli si prostrano invocando la protezione divina.

La città è punteggiata di musei interessanti ma su tutti un vero gioiello è rappresentato dal Museo di Choijin Lama, un monastero costituito da 5 edifici in stile cinese che, al tempo della dominazione russa (1921-1991), era chiamato museo della superstizione per il notevole contenuto religioso. Vi è conservata una pregevole collezione di maschere tradizionali usate nelle danze rituali tcham, con raffigurazioni che ancora incutono timore nello spettatore. Di grande bellezza sono le pitture su tessuto, thanka, diffuse nel mondo tibetano che rappresentano le divinità e le storie del pantheon buddhista e le sculture del massimo artista nazionale, il monaco Zanabazar vissuto nel XVII° secolo.
IL VIAGGIO ITINERANTE

Finalmente è giunto il momento di partire con la nostra carovana, sì perché se pure costituita da confortevoli 4×4 giapponesi, si viaggerà in convoglio con mezzi numerati, ognuno con il proprio bagaglio a bordo in equipaggio di 3 persone oltre l’autista locale, alla testa e in coda i mezzi con le guide mongole. Inevitabile pensare a quel giovane veneziano che diversi secoli prima ci ha preceduto lungo i territori d’Oriente … certo siamo meglio attrezzati di Marco Polo ma anche noi andremo alla scoperta di panorami e spazi e genti.

Si parte in direzione ovest, prima lungo la strada asfaltata, poi immersi nella sterminata prateria per raggiungere il primo dei campi tendati che ci accoglieranno lungo il nostro itinerario, fatti di gher o yurte, le “case” trasportabili dei nomadi, costituite da una struttura in salice e legno che viene ricoperta con strati di feltro per isolare da freddo e caldo, da vento e pioggia, rivestita con teli bianchi (Architettura senza architetti – J. May) a volte decorati, facile da trasportare, smontata, per muoversi durante l’anno alla ricerca dei pascoli migliori per le mandrie di cavalli e yak con capre e  pecore al seguito. Certo il segno dei tempi implacabile mostra come gli usi stiano velocemente cambiando, le gher spesso ora vengono trasportate in un furgone piuttosto che con i carri e i mandriani sono in sella ad una moto piuttosto che al cavallo.

La natura ci circonda a 360°, fiumi, ruscelli e specchi d’acqua in cui i cavalli si rinfrescano circondati da gru siberiane dal piumaggio candido, spatola e aironi, eleganti anatre mandarine e cigni, mentre i falchi volano bassi. È difficile dire a parole il senso di libertà e di immensità che gli occhi e il fisico percepiscono, il silenzio assoluto cui noi animali di città poco siamo abituati, meglio forse parlano le immagini che però non potranno riprodurre quella varietà di profumi che ad ogni tratto fatto a piedi andiamo scoprendo. Man mano che il viaggio procede si capisce che non è importante avere una meta ma guardare tutto quello che si ha intorno, osservare ogni dettaglio, ascoltare il rumore ovattato degli zoccoli sul terreno, guardare lontano e contemporaneamente restare immobili.
Il percorso è segnato dai cumuli votivi di pietre, gli Ovöö, a volte delle collinette, sormontate da bandiere colorate, con stampate preghiere che girando 3 volte in senso orario i viaggiatori recitano, lasciando oltre ad un pietra, ogni genere di offerta anche le più improbabili.
Quello che rimane di Karakorum, dove Gengis Khan nel XIII° secolo aveva basato la capitale dell’impero mongolo, è il grande perimetro murario in mattoni, punteggiato di 108 stupa bianchi, il complesso monastico di Erdene Zuu. La città fu un crocevia di popoli, nota per il commercio e per la diplomazia, per la sua multietnicità e la tolleranza religiosa, descritta minuziosamente da Guglielmo di Ruysbroek, francescano fiammingo che la visitò nel 1254; venne abbandonata da Kublai determinando il suo inevitabile declino. I templi salvati dalla distruzione sovietica perché ricoperti di terra dagli abitanti della regione a simulare una zona collinare, sono  tre in stile cinese con raffigurazioni del Buddha in 3 diverse età e piccoli padiglioni laterali con pregevoli cicli di affreschi, oltre quello in stile tibetano dove ci accolgono i mantra recitati da due file contrapposte di monaci abbigliati in rosso e giallo ocra, mentre su una fila laterale si può richiedere di recitare una preghiera speciale con un’offerta in denaro.
Questo è sicuramente il viaggio della lentezza, della semplicità e del quotidiano, è il viaggio dei panorami sterminati, dell’aria rarefatta e pura, della lontananza e della condivisione. E nel cercare di raccontare vengono in mente la visita alla tenda di un allevatore produttore di latte di cavalla che, fermentato, diventa una bevanda dal forte sapore acido, offerta ad ogni ospite; i canti gutturali della sera, accompagnati da semplici strumenti musicali; l’ospitalità di un anziano signore che ci fa sedere tutti in circolo parlando dei suoi ricordi, di come ha conosciuto la moglie, dei suoi figli che ora vivono in città; e poi ancora la famiglia giovane con bambini che alleva cavalli e yak.
Giunti nella meravigliosa valle del fiume Orkon, la sensazione è di aver raggiunto la frontiera del Far West; dopo il guado del fiume si sale sull’altura dove sorge il campo, proprio sopra l’ansa del fiume il cui scorrere si sente distintamente anche dall’interno delle tende. Quando cala la notte rimane sopra di noi un cielo stellato immenso, limpido e luminoso che alle nostre latitudini sarebbe impossibile vedere, qui non ci sono né luci artificiali né inquinamento atmosferico.
Il paesaggio è cambiato, quasi alpino, boschi di conifere e valli disseminate di fiori colorati, predomina il viola su tutti, camminando sui prati si scoprono ovunque stelle alpine. Per raggiungere l’eremo di Zanabazar, il Monastero di Tuvkhun, c’è da camminare per un largo sentiero di montagna per circa un’ora,  evitando però fango, radici e massi, o in alternativa arrivare al trotto su tranquilli cavalli. Dalla base della roccia sacra si deve comunque proseguire a piedi, inerpicandosi fino ai templi in legno. In questo luogo si pratica un buddhismo purificato dalle pratiche popolari, dedito alla sola preghiera, dopo aver ricevuto la benedizione di un monaco si è ammessi alla visita delle celle degli eremiti, guidati da una corda azzurra, tutto con una piccola “arrampicata” fino alla cima dove le strade di uomini e donne  si separano.
Il paese è vasto, tanti i chilometri da percorrere ogni giorno, i panorami si alternano a volte pigri, sono rarissimi gli insediamenti fissi, sembrano i villaggi del circolo polare artico, con i tetti di lamiera colorata e l’architettura geometrica. Con un po’ di fortuna ci si imbatte in un mercato temporaneo di bestiame o in una prova di rally con moto e auto in stile Parigi-Dakar. Cominciamo a vedere gruppi di cammelli che mangiano bacche e in lontananza, oltre il verde dei prati, la striscia giallo chiaro delle dune del deserto di Gobi che ha come sfondo una frastagliata catena di montagne.

Da vicino il vento sulle dune crea su magnifico gioco di forme con la sabbia morbida, un mutare continuo che ipnotizza.

Il destino benevolo ci fa incontrare sulla strada un Nadaam regionale verso il quale confluiscono gruppi di persone, anziani, bambini, famiglie, in un tripudio di colori che da lontano sembra una fiera di paese. Il Nadaam in realtà è una manifestazione sportiva tradizionale che si tiene a metà estate, nella capitale a luglio, in cui viene praticata la lotta libera mongola, una gara ippica e una prova di tiro con l’arco. È un’occasione unica per vedere i costumi tipici, ormai abbandonati nella quotidianità e per respirare l’entusiasmo della rievocazione delle gesta di Gengis Khan. Mentre gli anziani sono posizionati nei posti migliori intorno all’arena della lotta, sotto un tendone riparati dai raggi del sole, la maggioranza degli spettatori è in attesa dell’arrivo dei cavalieri che corrono su un percorso naturale di alcuni chilometri e sono preannunciati all’arrivo da nuvole di polvere. Quando smontano e orgogliosi girano per la festa, sotto i cap si vedono fantini bambini, maschi e femmine, sorridenti nelle uniformi sgargianti e lucide, che concitati raccontano alle famiglie le loro gesta sul ‘circuito’. E che dire dei cavalli, i veri protagonisti della gara, l’orgoglio di questo popolo di allevatori (si stima ci siano circa 55.000.000 di capi in Mongolia) sono di piccola taglia e girando se ne possono apprezzare le bardature policrome e i disegni delle marchiature. I lottatori, 42, sono avvolti in palandrane di seta con il tipico cappello in testa, quando inizia la sfida si svestono rimanendo in slip rosso o azzurro e una sorta di bolero corto. Il combattimento a due è ad eliminazione, supervisionato da arbitri, chi viene atterrato è eliminato; il vincitore simula attorno al vinto il volo dell’aquila. Purtroppo non possiamo fermarci oltre, ci attendono altre albe e tramonti, tanti fotogrammi dai colori intensi…

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