VERSO IL DESERTO DEL GOBHI - Mongolia
Agosto 2016 - Diario di viaggio di Susanna PieriniIl tempo previsto per conoscere Ulaan Baatar non è molto ma la città è una piacevole scoperta. Si parte dal Monastero buddista di Gandan, uno dei pochi risparmiati dalle distruzioni staliniste, dove alle 9,00 ha luogo tutti i giorni una preghiera annunciata dai giovani monaci che suonano trombe di conchiglia dalle torrette in legno dipinto di verde, giallo e rosso. È il segnale che precede l’uscita dell’abate dallo spazio privato per recarsi in preghiera presso il tempio d’oro. Gli edifici del complesso monastico hanno tetti in tegole di ceramica vetrificata verde bosco, con i terminali zoomorfi, all’interno si scorgono offerte in burro colorato e una teoria di statuette del Buddha, fuori sono contornati da file di ruote di preghiera che girano azionate dalle gesto rituale dei fedeli. Più discosto in posizione sopraelevata si erge la costruzione che ospita l’enorme Migjid Janraisig o Avalokitesvara, l’immagine del bodhisattva della compassione, alto oltre 26 metri, una replica recente in gesso dorato, di quello in bronzo che i sovietici avevano fuso nel 1938. La strada che conduce al tempio è disseminata di piattaforme inclinate su cui i fedeli si prostrano invocando la protezione divina.
Finalmente è giunto il momento di partire con la nostra carovana, sì perché se pure costituita da confortevoli 4×4 giapponesi, si viaggerà in convoglio con mezzi numerati, ognuno con il proprio bagaglio a bordo in equipaggio di 3 persone oltre l’autista locale, alla testa e in coda i mezzi con le guide mongole. Inevitabile pensare a quel giovane veneziano che diversi secoli prima ci ha preceduto lungo i territori d’Oriente … certo siamo meglio attrezzati di Marco Polo ma anche noi andremo alla scoperta di panorami e spazi e genti.
Si parte in direzione ovest, prima lungo la strada asfaltata, poi immersi nella sterminata prateria per raggiungere il primo dei campi tendati che ci accoglieranno lungo il nostro itinerario, fatti di gher o yurte, le “case” trasportabili dei nomadi, costituite da una struttura in salice e legno che viene ricoperta con strati di feltro per isolare da freddo e caldo, da vento e pioggia, rivestita con teli bianchi (Architettura senza architetti – J. May) a volte decorati, facile da trasportare, smontata, per muoversi durante l’anno alla ricerca dei pascoli migliori per le mandrie di cavalli e yak con capre e pecore al seguito. Certo il segno dei tempi implacabile mostra come gli usi stiano velocemente cambiando, le gher spesso ora vengono trasportate in un furgone piuttosto che con i carri e i mandriani sono in sella ad una moto piuttosto che al cavallo.
Da vicino il vento sulle dune crea su magnifico gioco di forme con la sabbia morbida, un mutare continuo che ipnotizza.
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popolo, gli anziani con ancora il ricordo degli italiani e i giovani che hanno gli stessi sogni di tutti i giovani del Mondo. Ho desiderato viaggiare in Eritrea per poter unire i pezzi di un percorso antico che dall’altra parte del mare, passando per Adulis e attraverso passi di montagna, arrivava fino ad Axum. Volevo percorrere la strada che scende a Massaua, camminare lungo le sue vie, sentire la pelle, seccata per il clima dell’altopiano, sudare per l’umidità. E viaggiare nella terra dove ha messo radici, come le mettono le erbe matte, la presuntuosa espansione coloniale dell’Italia.
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