Viaggio in Eritrea
2015 - Diario di viaggio di Vittorio MelisAll’aeroporto di Cagliari- Elmas, io e mia moglie prendiamo il volo con destinazione Roma –Fiumicino, prima tappa del viaggio. L’idea del viaggio era maturata circa un anno prima. Il desiderio di tornare ad Asmara, la città in cui sono nato e ho trascorso i primi anni della mia infanzia, era troppo forte e avevo fatto di tutto per realizzare questo mio sogno. Fortunatamente ho trovato l’Agenzia che mi ha organizzato il viaggio sbrigando tutte le pratiche necessarie per poter raggiungere la mia Asmara.
Da Roma-Fiumicino, raggiungiamo Il Cairo dopo circa tre ore di volo. All’aeroporto della capitale egiziana ci uniamo al gruppo appena sbarcato, proveniente da Milano, costituito da sei persone tra cui una mia sorella, nata anche lei ad Asmara e il marito. E ora siamo in otto. Nell’aereo mi tornano alla mente i tanti racconti sull’Eritrea narrati da mia madre, ma soprattutto da mio padre. Per lunghi anni in casa si parlava dell’Eritrea, degli anni passati ad Asmara, della guerra contro le truppe inglesi, la resa dell’esercito italiano, degli anni sotto occupazione inglese, della partenza dal porto di Massaua e l’arrivo in Italia alla fine degli anni Quaranta. Quasi una vita intera era trascorsa da quei lontani giorni sino a quel momento, lì sull’aereo ma con l’Eritrea e la sua gente, la mia “gente” sempre nell’animo e soprattutto nel cuore! Mi sveglio che l’aereo sta per atterrare all’aeroporto di Asmara. È buio pesto. Sono da poco passate le tre del mattino, ora locale. Non mi sembra vero di essere tornato dopo sessantasette anni nella terra dove sono nato. Ad attenderci un attempato eritreo, di bell’aspetto: è Tesfai (nome di fantasia) la nostra guida e lo sarà per tutto il periodo della nostra permanenza in Eritrea durante il quale si instaurerà un rapporto di amicizia, di sincera amicizia. L’eritreo ci saluta in italiano, che conosce perfettamente, e ci fa strada per raggiungere un pulmino dell’Agenzia che subito parte in direzione della città. Percorriamo un lungo viale di palme illuminato e dopo meno di sei chilometri siamo al centro di Asmara; il pulmino si ferma di fronte all’albergo “Emba Soira”.
La nostra stanza, al primo piano, è accogliente e discretamente arredata. La stanchezza è tale che ci buttiamo subito sul letto. Poco tempo dopo odo una specie di nenia, incomprensibile. È il richiamo del muezzin che invita i fedeli alla preghiera. Al sorgere del sole sento le campane di una chiesa, non molto distante: sono quelle della Cattedrale Cattolica, di cui si staglia imponente la parte alta del campanile, che suonano per invitare i fedeli alla messa.
Dopo tre ore di riposo scendiamo alla reception, dove ci consegnano i passaporti che porteremo sempre appresso. La hall, attigua alla reception, è una vasta sala, con ampie vetrate arredata con divani e poltrone, e in una di queste c’è Tesfai ad attenderci. Assieme entriamo nella sala ristorante, molto ampia e il buffet è pieno di cibi, dolci, bevande, frutta.
Dopo una rapida colazione usciamo per visitare la città. Non vedo l’ora! Siamo al centro, nella zona delle ambasciate, quartiere sciccoso costituito da tante ville, del periodo coloniale italiano, rimesse a nuovo. Attraversiamo una via con palazzine intervallate da case con giardino dove fanno bella mostra cascate di buganville. Oltrepassiamo la ex scuola per ragionieri “Bottego”, passiamo davanti al vecchio teatro dell’Opera all’esterno del quale fa bella mostra una fontana rinascimentale a foggia di conchiglia, e ci affacciamo su un lungo viale. È la Harnet Avenue, il cui nome ha seguito le vicende storiche vissute dalla città, passando da Viale Mussolini, a Viale delle Palme, a Corso Italia, Avenue Hailè Sellassiè e infine Harnet Avenue.
Lungo il viale ampio e costeggiato da alte palme si allineano, ordinati e piuttosto ben conservati, edifici della migliore architettura e sui marciapiedi larghi e puliti si affacciano tanti bar vere opere d’arte che hanno mantenuto inalterato il loro fascino dell’epoca coloniale italiana. Proseguendo nel viale troviamo la cattedrale cattolica (foto) dedicata alla Beata Vergine del Rosario imponente e maestosa all’esterno con i suoi mattoni a vista, con un campanile slanciato, alto 57 metri. Un’ampia scalinata che si restringe gradualmente ci conduce all’ingresso della chiesa, l’interno della quale, tutto in marmo di Carrara, si sviluppa su tre navate sopra le quali vi è una cupola a otto facciate dipinte in azzurro macchiettate da tante stelle dorate e le pareti sono abbellite da suggestivi affreschi che sembrano appena eseguiti da mirabili artisti.
Lasciata la cattedrale, proseguiamo col gruppo sulla Harnet Avenue. C’è un andirivieni di gente. Molti sono i giovani. Molte sono le ragazze vestite all’occidentale: in pantaloni alla moda e alcune anche in bluejeans, maglietta o camicia, qualcuna anche con una giacchina leggera; altre invece indossano lunghe vesti, dai colori più diversi e più vivaci, un vero tripudio di colori, e un fazzoletto a coprire i capelli e il collo. Lo stesso vale per gli uomini. S’incontrano quelli vestiti all’occidentale e quelli vestiti con lunghe tuniche, anche queste di colore chiaro, con il capo scoperto. Tra gli anziani molti sono quelli che vestono in giacca e cravatta con inappuntabili cappelli a larghe tese; sembrano antiche ombre italiane che parlano ancora oggi correttamente la nostra lingua e se interpellati per qualche informazione non disdegnano di intrattenere discussioni in italiano. Scoprirò in seguito che quelli che vestono all’occidentale sono di fede cristiana (copta o cattolica), e gli altri, con lunghe tuniche, sono per lo più di fede islamica. Sono molto frequenti i gruppi di persone di fede diversa che camminano assieme. Un grande esempio d’integrazione religiosa! E noto che sono tante le ragazze slanciate, dal bel portamento, dai lineamenti perfetti e la pelle, color cioccolato, come il velluto. E non sono da meno i giovani. Devo riconoscere che questa gioventù è fisicamente bella! Dopo poche centinaia di metri cominciamo a sentire una musica ad alto volume. Proviene dal Cinema Impero, una costruzione Art Deco, decorata con leoni e palme realizzata dagli italiani nel 1937, che contiene 1.800 posti a sedere.
C’è tanta gente che occupa anche l’ingresso che immette nel bar all’interno del quale si dipartono due rampe di scale che conducono alla sala di proiezione. Come giungiamo all’ingresso del locale ci invitano a entrare. Nel bar c’è allegria. C’è una festa di matrimonio. La musica sa di esotico. Si balla. È un ballo che si svolge muovendosi in cerchio, con la sposa e lo sposo in testa. Sono molti quelli che ballano, gli altri tutto intorno accompagnano la musica battendo le mani. La sposa è una giovane eritrea, carina, che indossa un abito bianco, lungo, dallo stile, direi, prettamente italiano. Lo sposo è più anziano della sposa. È un matrimonio “cristiano”. A un certo punto qualcuno mette una banconota eritrea nella scollatura dell’abito della sposa e altri lo imitano mentre si continua a ballare. Noi italiani non disponendo di moneta locale colmiamo la lacuna con banconote in Euro. Baciamo la sposa, stringiamo la mano allo sposo, salutiamo, contraccambiati con simpatia, la compagnia festante e proseguiamo il nostro passeggio lungo il viale.
Ritorniamo all’Emba Soira. È ora di pranzo. Sono disponibili piatti tipici eritrei, come lo zighinì e lo shirò e italiani come le lasagne. Il pane lo trovo molto buono, ben cotto e croccante. La frutta consiste in banane o arance, che sono semplicemente ottime. Dopo un breve riposo, riusciamo per andare in giro per la città con Tesfai. Rifacciamo a piedi la stessa strada della mattina, ritrovandoci così nella via principale della città, la Harnet Avenue, ritrovo domenicale per buona parte degli asmarini, che scendono per la classica passeggiata, una degna tradizione che è ormai scomparsa dalle abitudini di buona parte del mondo mediterraneo ma che è viva più che mai a questa latitudine. I bar sono affollati.
Lasciamo il viale e ci inoltriamo nelle strade laterali in direzione della moschea di cui vediamo svettare il minareto. La nostra guida ci fa da cicerone. È una guida paziente, parla un italiano corretto ed è molto preparato: è una fonte inesauribile di notizie e in particolare del periodo coloniale italiano.
Arriviamo in una vasta piazza e di fronte a noi si staglia la grande Moschea Al Kulafah al Rashidin. È chiusa. Sulla piazza si affaccia una serie di palazzi tra cui la Banca Nazionale Eritrea, sede della Banca d’Italia al tempo del colonialismo italiano. Anche se è giorno festivo troviamo molti negozi aperti. Arriva l’ora di cena e noi facciamo rientro all’hotel.
L’indomani mattina ci immergiamo nuovamente nella città. Giungiamo di fronte all’Ufficio delle Poste Centrali Eritree, progettato e costruito dagli italiani. È un tuffo nel passato perché un’impossibile macchina del tempo sembra averlo fermato a quasi un secolo fa: marmi e colonne che delimitano i vari sportelli per le operazioni postali, le caselle postali, tutto è originale, così come il grande tavolo al centro della sala. Nel nostro peregrinare veniamo a trovarci di fronte alla “Farmacia Centrale”, un locale con scaffali in legno scuro, con le ante in cristallo e all’interno di questi fanno bella mostra dei contenitori in ceramica di fogge diverse, su ognuno dei quali è scritto il nome scientifico o in italiano di tisane e di erbe officinali. E poi vi sono strumenti e dispositivi che un tempo venivano utilizzati per la preparazione di medicinali. Anche il bancone è in legno e su questo c’è un registratore di cassa anni Trenta del secolo scorso.
Era questa una farmacia italiana degli anni antecedenti la seconda guerra mondiale. Poco dopo mezzogiorno rientriamo all’albergo per il pranzo. Il nostro amico Tesfai ci informa che la sera siamo liberi di uscire per conto nostro. Cosa che io e mia moglie facciamo addentrandoci ancora una volta nelle vie che ruotano intorno alla Harnet Avenue.
Restiamo altri due giorni ad Asmara. La prima mattina raggiungiamo la zona dove sorge la Cattedrale Ortodossa (Copta), Enda Mariam, costituita da un corpo centrale, con splendidi mosaici che rappresentano figure stilizzate cristiane e due campanili laterali.
La cattedrale è chiusa ai fedeli. Usciamo dal recinto della chiesa e a piedi raggiungiamo un mercato, una grande costruzione che denota subito l’impronta italiana nell’eleganza dell’architettura. È il mercato delle granaglie e delle spezie con i suoi odori e gli aromi africani. Nella miriade di sacchi, di ceste allineate lungo i banchi o disposte per terra, è esposta una molteplice varietà di cereali e legumi, di ogni forma e colore, e dietro o accanto alle merci, si scorgono soprattutto delle donne, le venditrici con i loro caratteristici costumi, ricchi di colori dagli effetti cromatici tipici che rendono ancor più vivace l’atmosfera. Nel perimetro esterno del mercato, fanno bella mostra banconi di verdure e frutta esotica.
Dappertutto, quando ti avvicini dove c’è gente e saluti ti rispondono con un sorriso o un cenno del capo e qualche anziano risponde in italiano. È un’umanità socievole, cortese, direi affabile e dignitosa nella propria povertà e non percepisci nei loro volti, nei loro comportamenti, rassegnazione, avvilimento, ma si avverte un senso di buonumore e di vivacità. L’animo e il carattere del popolo eritreo sono stati forgiati e temprati da mille avversità, da guerre e carestie e, di certo, ha imparato o è stato costretto, per sopravvivere, a cogliere gli aspetti positivi della vita.
Con il pulmino raggiungiamo un ristorante con due sale. In una di queste c’è un tavolo preparato per il nostro gruppo. Si può scegliere tra la cucina eritrea e quella italiana. Dopo pranzo ripartiamo per giungere in prossimità di una rotatoria fiorita, di fronte alla quale si staglia un edificio alquanto insolito. Era questo la stazione di servizio della casa automobilistica Fiat su cui campeggia, nella parte anteriore della costruzione proprio la scritta FIAT e lateralmente è riportato il nome del titolare: Tagliero.
Costruita in stile futurista nel 1938, ricorda nella forma un aeroplano con due enormi ali autoportanti. È una degna celebrazione della modernità, del progresso tecnologico, una sfida vinta nei confronti di coloro che avevano pronosticato la rovinosa caduta di queste due ali che imperterrite sfidano ancora l’opera distruttrice del tempo. Decidiamo di proseguire a piedi lungo la Sematat Avenue, e dopo oltre quattrocento metri, se non più, ci troviamo di fronte a un edificio dalla facciata di marmo decorata da finestre, luci e la scritta “Roma” a caratteri cubitali con le lettere dorate. È per l’appunto il cinema Roma.
Al centro dell’atrio troneggia un mastodontico proiettore da 35 mm, quello originale degli anni ’30, tirato a lucido, collocato su un piedistallo in legno, a base circolare. E nel grande vestibolo fanno sfoggio piccoli tavolini rotondi, sedie dell’epoca e il bar scintillante di luci. Il locale conserva ancora i pavimenti, gli addobbi e il banco della cassa di quell’epoca. Sulle pareti ci sono ancora dei poster con la pubblicità di film, con i volti di attori famosi, degli anni Sessanta e Settanta, in cui degli italiani ancora avevano continuato a stare in Eritrea. Nel nostro peregrinare nel centro della città ci imbattiamo in edifici di vari stili architettonici: neoclassico, razionalista, monumentale, futuristico, cubista, altri in Art Deco, insomma una mescolanza equilibrata e armoniosa di differenti espressioni architettoniche. Ma non c’è da meravigliarsi: Asmara era come un foglio bianco, dove gli architetti e gli ingegneri italiani di quel periodo, lontani da vincoli e costrizioni della madrepatria, si dilettarono a disegnare la città dell’utopia nella “piccola Roma”(così molti chiamavano Asmara), che nel 2017 è diventata Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’Unesco ed è considerata la più bella capitale dell’Africa.
L’indomani mattina si va al Medebber, un tempo adibito a Caravanserraglio. Come si entra si ha la sensazione di rivivere scene di un lontano passato, ma tutto quello che vediamo è puro presente. Sembra di essere entrati in un girone infernale dantesco o, meglio, nella fucina del Dio Vulcano dove si ricicla ogni cosa. E qui si crea di tutto e non si distrugge nulla. Centinaia di minuscole officine strette l’una all’altra, tante tute al lavoro, martelli che battono senza sosta producendo un fracasso indescrivibile e con l’ausilio della fiamma ossidrica gli oggetti cambiano forma e scopo. Si ripara, si ricicla, s’inventa. Entra una stufa rotta, esce una pentola. Da un vecchio fusto si producono tegami di tutti i tipi, fornellini, cucchiai, forchette, portalampade, croci cimiteriali, piccoli mobiletti e perfino parti di carrozzeria da adattare a vecchie auto con oltre sessanta o settanta anni di vita, ancora in circolazione. Con legname vecchio costruiscono mobili di tutti i tipi, finestre, porte e portoni, cornici, zoccoli, utensileria spiccia per ufficio, per la casa e ancora panche per luoghi di culto, stampelle e perfino arti artificiali.
Vicino all’ingresso c’è un angolo inaspettatamente silenzioso. Accovacciate per terra ci sono decine e decine di donne, con lunghi abiti dai più diversi colori, con accanto tanti sacchi o canestri o teli stesi per terra, con spezie di diverse varietà. Le loro mani si muovono rapidamente, scelgono, separano i vari prodotti per realizzare il berberè, gloria nazionale dell’Eritrea.
Lasciamo questa folcloristica bolgia, luogo di creatività, di inventiva, del riciclaggio totale forse, nel suo genere, unico al mondo.
Pranziamo al Sicomoro, un ristorante con bar, molto elegante, accogliente e nel pomeriggio usciamo a piedi nel centro di Asmara a curiosare nei negozi e fare qualche piccolo acquisto.
La mattina successiva con due fuoristrada si parte per un’escursione fuori Asmara. Raggiungiamo Decamerè, città sorta al tempo del colonialismo italiano, che soprattutto negli anni Trenta, raggiunse notevoli dimensioni, con moderni edifici in stile ‘900, tipici del Razionalismo italiano, che vanno dallo stile architettonico “Deco” al “Liberty” o al “Razionalismo” e diventando, inoltre, il centro dell’industria meccanica in Eritrea. Dopo una breve sosta per l’acquisto del pane, appena sfornato e dal profumo invitante, si prosegue. Superata Segheneiti, piccolo centro famoso per il forte che lo sovrasta, proseguiamo in un paesaggio molto bello, tutto un alternarsi di piante grasse, rocce modellate in forme tondeggianti, valli verdi e amene e campi rigogliosi sino a raggiungere la valle dei sicomori o piana di Deghera, dove svetta un imponente e maestoso esemplare.
Siamo di fronte all’albero più famoso dell’Eritrea: è un sicomoro (ficus sycomorus) raffigurato persino sulla banconota da cinque nakfa. È un albero pluricentenario con un tronco basso ma robusto e ampio, di diametro di 3,6/3,8 metri (circonferenza superiore agli 11 m) e i rami contorti come radici capovolte si aprono in un raggio di circa 23-24 metri, con fogliame bello, folto, così da formare una sorta di parasole che proietta la sua ombra al suolo per una superficie superiore ai 1500 m2 e sotto il quale possono ripararsi almeno 1500 persone comodamente sedute!
Siamo di fronte all’albero più famoso dell’Eritrea: è un sicomoro (ficus sycomorus) raffigurato persino sulla banconota da cinque nakfa. È un albero pluricentenario con un tronco basso ma robusto e ampio, di diametro di 3,6/3,8 metri (circonferenza superiore agli 11 m) (foto 12) e i rami contorti come radici capovolte si aprono in un raggio di circa 23-24 metri, con fogliame bello, folto, così da formare una sorta di parasole che proietta la sua ombra al suolo per una superficie superiore ai 1500 m2 e sotto il quale possono ripararsi almeno 1500 persone comodamente sedute!
Riprendiamo il viaggio, superiamo Sen’afè, una piccola cittadina, poco distante dal confine con l’Etiopia, attraversiamo Adi Keyh (anche Addi Qeyh), situata a 2.500 metri di quota, città di circa 40.000 abitanti, con un’importante e caratteristica fiera mercato. Si procede inerpicandosi su ambe che non scendono sotto i 2000 metri, contornate da un paesaggio sempre mutevole, che dalle terre aride e polverose degli altipiani, quasi improvvisamente si tinge di un verde riposante, segno della presenza di riserve idriche.
Lasciamo la strada principale per immetterci dapprima su una strada sterrata per proseguire su una pista appena tracciata sino a trovarci sull’altopiano del Kohaito, a quota 2700 m, il più alto (di quota) insediamento umano dell’Eritrea. La regione vasta e brulla, in posizione isolata e tranquilla, è sede del sito archeologico, con il Tempio di Mariam Wakiro, il più importante dell’Eritrea, testimone di un’epoca in cui prosperò una civiltà ricca e fiorente. Qui l’aria è pura e leggera, la temperatura è mite, il cielo è terso e le montagne circostanti delineano uno spettacolo straordinario che va al di là dell’aridità dell’altopiano. Procedendo a piedi fra rade piante circondate da arbusti bassi e piante grasse, tra cui aloe fiorite di rosso tendente all’arancione, giungiamo sull’orlo di un lungo e selvaggio baratro. Un piacevole tepore invade l’aria e tutto intorno si aprono squarci mozzafiato di un paesaggio surreale, frutto di un’antica attività sismica seguita da milioni di anni di erosione prodotta dai corsi d’acqua.
Siamo di fronte a un canyon che degrada, con precipizi di oltre cinquecento metri dominati qua e là da isolate rocce sporgenti (foto 13), con strette fenditure e profonde vallate sottostanti, alcune delle quali spoglie, altre ricoperte di bassa vegetazione, per chilometri e chilometri sino a che lo sguardo si perde lontano, lontano. Proseguendo in quella direzione il canyon conduce sino ad Adulis, il porto situato nel golfo di Zula, a circa 60 km a sud di Massaua. Volgendo lo sguardo verso nord-est si vede il picco più alto del Paese: è l’Emba Soira che svetta con i suoi 3.018 metri s.l.m.
L’indomani mattina lasciata Asmara prendiamo la carrozzabile in direzione sud e attraversiamo una serie di villaggi dell’altopiano immersi in campi coltivati. Giungiamo a Mendefera dove facciamo una piccola sosta per proseguire sino a raggiungere il monumento ai caduti della battaglia di Adua, posto a circa 5 chilometri dal confine etiope.
Ci troviamo su una spianata, inghiaiata, ben tenuta e spoglia di erbacce, su cui si staglia il monumento e lateralmente si ergono due lunghi pennoni su cui sventolano due bandiere: quella italiana e quella eritrea. Il monumento è un tronco di piramide a gradini di marmo beige chiaro, a base quadrata, sormontato da un alto obelisco di marmo. Quasi a metà del corpo principale del monumento, ai quattro angoli, quattro statue di marmo bianco, raffiguranti ognuna un leone disteso sul ventre, vigilano sul sonno eterno dei caduti nella cruenta battaglia. Questo è il monumento ai caduti della battaglia di Adua (1 marzo 1896), che rappresentò il momento culminante e decisivo della guerra di Abissinia, e quella pesante sconfitta arrestò per molti anni le ambizioni coloniali italiane sul Corno d’Africa. Come al solito la nostra guida ci fornisce dettagliate descrizioni storiche di quel tragico evento.
Riprendiamo la strada del ritorno per giungere ad Adi Quala da dove prendiamo una camionabile che porta in una zona alberata, nella quale si trova una Chiesa copta, dedicata alla Madonna, costruita ai tempi del colonialismo italiano. Non è grande ma dall’esterno si può definire di bella fattura e al suo interno, così ci è stato detto dalla guida, si trovano pregevoli affreschi. La Chiesa è chiusa e il custode del tempio, affacciato sulla soglia di un piccolo caseggiato, la sua abitazione, consiglia Tesfai di andare a cercare il prete che ha le chiavi del portone. Nell’attesa, io e mia moglie, mentre stiamo facendo due passi, incrociamo due ragazzi che si fermano e il più giovane, sui quattordici anni ci domanda, in inglese, se siamo italiani. Iniziamo una conversazione. Poco dopo il custode, con ampi gesti della mano, ci invita ad avvicinarci e a entrare nel caseggiato, costituito da un’ampia stanza, al centro della quale, a ridosso di alcune lunghe panche, ci sono due donne vestite con lo zurià, accovacciate sul pavimento che stanno preparando il berberè. Il ragazzo più giovane, ci presenta l’uomo dicendoci che è il padre e lo salutiamo stringendogli la mano. L’uomo ci invita a sederci indicandoci alcune seggioline poste al di là di un fornellino su cui è posto un bricco che emana un gradevole aroma di caffè.
L’uomo ci offre una tazzina di caffè dall’invitante aroma e io decido di ignorare la tachicardia che mi causa il caffè perché in questa circostanza non potevo rifiutare un invito offerto con molta generosità da persone che ci accoglievano nella loro casa con tanta ospitalità. Chi se ne frega della tachicardia, mi sono detto, oggi lo bevi e stai zitto! La conversazione prosegue per un bel po’ e constato che il caffè, stranamente, non mi ha creato alcun problema! Non ne conosco il motivo, ma va bene così!
A un certo punto sentiamo che ci chiamano. È tornata la guida. Non ha trovato il prete e quindi si parte. In questi due giorni che siamo usciti da Asmara, nelle campagne attraversate in macchina e nei luoghi in cui ci siamo fermati, abbiamo incontrato contadini e gente comune e abbiamo avuto la percezione che la povertà accompagna la loro vita che è regolata dalle ferree leggi della terra e delle stagioni. Eppure essi, come questa famiglia, sono animati da una grande dignità e, oserei dire, fierezza. E grande è in loro il senso dell’ospitalità. Come usciamo dalla stanza veniamo accompagnati sin fuori dall’uscio dai due ragazzi e dal padre e ci uniamo al gruppo per fare rientro alle macchine. Mi volto un’ultima volta e l’uomo mi saluta agitando la mano e contraccambio.
Ripreso il viaggio, arriviamo, attraversando la strada principale che attraversa la città, di fronte a una zona ombreggiata, e immersa fra gli alberi c’è una chiesa cattolica, di piccole dimensioni, dedicata a Santa Rita, la cui statua è in fondo nell’angolo sinistro rispetto all’altare. Sulla parete accanto c’è una grande lapide nera (foto) su cui sono incisi i cognomi e i nomi dei morti italiani nell’affondamento, la mattina presto del 28 novembre 1942, al largo della costa del Natal, (ad opera di un U-Boat 177, sommergibile tedesco) del piroscafo inglese “Nova Scotia”. Questa trasportava soldati italiani fatti prigionieri in Etiopia e in Eritrea e civili italiani, fra i quali alcune donne, imbarcati nel porto di Massaua, per essere deportati in Sudafrica da dove avrebbero raggiunto i campi di prigionia. Delle 1200 persone di partenza si contarono solo 181 superstiti. Furono 651 (alcune fonti riportano 655) gli italiani che sparirono nell’oceano. Che tristezza!
Nella strada di ritorno, appena superato un tornante, su uno spiazzo al margine della strada, appaiono una dozzina di scimmie. Sono babbuini amadriadi, animali pacifici. Nel gruppo di babbuini c’è il maschio dominante dotato di un foltissimo mantello, simile a una criniera, bianco-grigiastra che dal capo scende fin quasi al fondo schiena. È seduto sul terreno a controllare austero la situazione. Intorno ci sono alcune femmine, il suo harem, di dimensioni più piccole, dal pelo bruno e corto e tra queste ce ne sono due che portano il loro cucciolo avvinghiato al petto. Un bel quadretto!
È sabato mattina. Lasciamo l’Emba Soira a bordo del pulmino dell’agenzia per la stazione ferroviaria di Asmara, una costruzione ormai fatiscente con muri sbrecciati e le insegne scolorite. Nel piazzale antistante non ci sono tassisti o facchini in attesa, non ci sono più orari dei treni da consultare e la campanella che dovrebbe annunciare i treni è tristemente muta né si sentono sbuffare le vecchie locomotive. Ed ecco la sorpresa, predisposta per noi: una locomotiva a vapore Ansaldo, dei primi anni del Novecento sbuffa lanciando nuvole grigie di vapore, con polvere di carbone. Attaccato alla locomotiva c’è un vecchio vagone della seconda classe, con sedili di legno e finestrini senza vetri. Bisogna accontentarsi. Saliamo a bordo del vagone. Ci troviamo improvvisamente catapultati nel passato, indietro di un secolo, pronti a iniziare un’avventura piena di magia e di fascino. Il treno lascia la stazione e si getta tra le montagne e si cominciano a vedere scenari e panorami di incomparabile bellezza. La strada ferrata procede sul versante di una montagna su terrazzamenti scavati nella roccia, attraverso costoni con scarpate e dirupi mozzafiato, in un susseguirsi di curve e controcurve. Si esce da una galleria e in lontananza se ne vede un’altra, verso cui sta andando il treno. Si procede in discesa così lentamente grazie al freno azionato manualmente dal fochista che ora funge da frenatore. Arriviamo a Arbaroba e facciamo una sosta, il tempo necessario affinché il treno possa girare la locomotiva per il rientro ad Asmara.
Stavolta la vaporiera procede lentamente, inerpicandosi sbuffando e sferragliando e si possono rivedere e riassaporare strapiombi da brivido, gole profonde, curve e controcurve, gallerie dentro le quali senti l’odore acre del fumo emesso dalla locomotiva e tutto questo scenario è immerso in catene montuose che ora si stagliano su un cielo diventato azzurro terso.
Giungiamo alla stazione di Asmara. Con il pulmino rientriamo all’Emba Soira!
Un pranzo rapido nel ristorante dell’albergo. Saliamo nelle nostre stanze per un breve riposo e al primo pomeriggio si parte per Cheren. Per circa 90 chilometri la strada, serpeggiando, scende dolcemente. Si attraversa una zona di boschi di eucalipti e subito dopo cominciano le euforbie, le acacie, e la discesa diventa più ripida. Superiamo la località di Elaberet, e con la strada in dolce pendenza si arriva a Cheren, la terza città dell’Eritrea, a 1.390 m di altitudine e 91 km da Asmara e si sente subito la differenza di temperatura. Il pulmino si dirige direttamente all’albergo, l’hotel Sarina, e dopo una breve sosta per rinfrescarci andiamo a visitare il “Cimitero Militare Italiano degli Eroi”. La zona è dominata dalle alture del Kub Kub e del Geleb ove, dal 2 febbraio al 27 marzo 1941, ebbe luogo la più cruenta delle battaglie combattute in Africa Orientale.
Il cimitero è diviso in due settori, in quello sulla sinistra sono sepolti, nella nuda terra, i resti dei caduti italiani e sulla destra di quelli eritrei (gli ascari). A ridosso del retro di ciascuna lapide cresce un arbusto di buganvillea le cui brattee che avvolgono i fiori sono colorate di viola.
Superate le sacre sepolture, ci troviamo di fronte a una cappella alla cui destra c’è il sepolcro del Generale Lorenzini e sulla sinistra, sorretta da un pilastrino in pietra, una lapide di marmo inclinata su cui è inciso: “Gli Eritrei furono splendidi – tutto quello che potremo fare per l’Eritrea – non sarà mai quanto l’Eritrea ha fatto per noi GEN. Amedeo Guillet”.
L’indomani mattina, si va verso la zona del “mercato del lunedì” disposto sopra il letto asciutto di un affluente del fiume Anseba. È tutta una moltitudine di colori, di voci, di suoni. Appaiono davanti a noi, come lunghi serpenti, due lunghe file di baracche, a forma di parallelepipedo, di teli che servono per proteggersi dai raggi diretti del sole. In questi improvvisati capanni, sul suolo, sono distese delle stuoie su cui sono disposte le merci in vendita. C’è tanta gente. Su un rialzo del terreno, dove ha termine il letto del fiume, vi sono tettoie di rami intrecciati sotto cui sostano degli uomini affaccendati attorno a piccoli fuochi su cui scaldano recipienti fumanti che emanano piacevoli odori di carne che bolle con verdure e le immancabili spezie come il berberè. Superato uno stretto passaggio ci ritroviamo su un vasto spiazzo, alla base di una collina arida. Uno spettacolo sorprendente si presenta ai nostri occhi: dromedari dal portamento altero, ritti, o accovacciati a gruppi numerosi o più spesso a piccoli gruppi. E asini dal mantello grigio ben lustrato. A completare il quadro una umanità variegata: uomini che indossano lunghe vesti bianche altri vestono “all’occidentale” con pantaloni e camicia prevalentemente a mezze maniche.
Nella parte alta della collina è situato il settore dei bovini: ce ne sono col manto marrone, bianco, pezzato, scuro ma tutti con le corna di piccole dimensioni. Sono tanti e c’è anche qui una marea di gente, di diverse etnie, di differenti idiomi, di vari modi di vestire. Uno spettacolo difficile da descrivere a parole.
Sulla sinistra del greto del fiume c’è una caleidoscopica mescolanza di colori, un eterogeneo insieme di persone, di cose, di suoni, di odori, di fragranze.
Terminata la visita al mercato, raggiungiamo il santuario di Nostra Signora delle Grazie, Mariam Dearit in lingua locale, meglio nota come “Madonna del baobab”, situato in fondo a un verdeggiante e ben curato boschetto in fondo al quale si staglia un imponente baobab.
Un’apertura immette all’interno del tronco cavo dove possono stare in piedi ben quattro o cinque persone. All’interno, ad altezza d’uomo, in penombra, s’intravede la statua lignea di una madonna nera, protetta da una grata metallica. Si racconta che durante la battaglia di Cheren, l’artiglieria inglese bombardasse le linee dell’esercito italiano e due soldati per proteggersi dai proiettili dei cannoni si rifugiarono all’interno del Baobab invocando la protezione della Madonna. Un proiettile centrò in pieno il baobab, lo perforò e cadde ai piedi dei due soldati senza esplodere. Da quel giorno quel baobab divenne luogo di culto, luogo sacro non solo per i cristiani del posto, in maggioranza ortodossi, ma anche per tutta la comunità di fede islamica, perché la devozione mariana, quasi dappertutto, va ben oltre le divisioni religiose e le dispute teologiche. Nella foto, sulla destra del tronco del baobab, la freccia indica il foro di entrata del proiettile.
Lasciamo il santuario e rientriamo in città, ci dirigiamo al centro, con i suoi caratteristici porticati, opera degli italiani durante il periodo coloniale. Anche qui ci sono molti mercati tra i più interessanti e folkloristici dell’Eritrea. C’è la via dei sarti, quella dei laboratori di orafi e negozi degli argentieri, che nel tempo hanno assegnato a Cheren la fama di capitale eritrea dell’argento.
La popolazione è in parte cristiana (in prevalenza ortodossa o copta) e in parte musulmana (islam di orientamento sunnita) divisione simbolicamente rappresentata dalla presenza di alcune Chiese (tra cui la cattedrale di San Michele) e di alcune Moschee tra cui una con la cupola rivestita di maiolica azzurra e un’altra caratterizzata da due minareti che si stagliano sullo sfondo della catena di montagne che circondano la città.
Pranziamo, ci rinfreschiamo un po’ e subito dopo partiamo per ritornare ad Asmara. Su una piana circondata da montagne, punteggiate da arbusti vari, da acacie ombrellifere e da euforbie, si intravedono disseminati qua e là dei tucul.
Facciamo in tempo ad arrivare al Cimitero di Asmara, situato su una collina dalla terra rossa. È un luogo pieno di luce, di colori, ed è uno dei luoghi più importanti per avere uno spaccato storico della vicenda italiana in Eritrea.
Ci dirigiamo subito al settore “Cimitero Militare Italiano” dove sono custodite le spoglie dei deceduti dal 1890 al 1950 e sono inumate in tombe individuali a terra, ciascuna con una croce in calcestruzzo avviluppata da una cascata di buganvillea viola. Questo luogo sacro, con l’insieme dei sepolcri, ben curati e con rigogliosi arbusti ornamentali, dove non arrivano i rumori della vita moderna, dà una sensazione di pace e porta a meditare sulla nostra fragilità e sulla fugacità della vita terrena. Proseguiamo la nostra visita nel Cimitero Cattolico dirigendoci nel settore riservato ai defunti di civili italiani, caratterizzato da cappelle votive familiari, da sepolcri sormontati da sculture in pietra o in bronzo, ma le tombe sono desolatamente spoglie. Un tempo, raccontano, era un giardino bellissimo, ma ora non c’è più un arbusto fiorito, né un fiore! Che tristezza! Ormai in Eritrea non ci sono più parenti, neppure lontani, che possano portare un segno, un atto di presenza per una testimonianza di una memoria non perduta, di un amore e un ricordo ancora vivo dei defunti! Questa terra, l’Eritrea, era la loro patria, era per loro un pezzo d’Italia in terra d’Africa, era il loro sicuro approdo, era tutta la loro vita. In questa terra è nata e si è sviluppata l’avventura coloniale italiana, ma è qui, in questo sacro luogo, che sono sepolte, assieme a tutti i loro sogni, le illusioni, le speranze di chi ha amato questo meraviglioso Paese.
Nel proseguimento del viaggio, io e mia moglie partiamo per Massaua con Tesfai a bordo di una Toyota dell’Agenzia. Si aggrega a noi una coppia di giovani italiani, giunta in Eritrea due giorni prima. La carrozzabile si snoda lungo i fianchi della montagna ricoperta da piante di fichidindia, e da cui si possono ammirare paesaggi mozzafiato. Si scende con curve e controcurve fra tornanti, dirupi ed erti pendii con un tracciato ripido e spettacolare, che percorre i fianchi della montagna con precipizi che partono dal bordo strada e finiscono nel fondovalle a cinquecento-seicento metri più sotto. Nelle vallate, molto fertili, si coltivano papaie e agrumi, mentre pastori nomadi portano i dromedari e le capre al pascolo in queste zone, dove si intravedono piccoli villaggi addossati alle falde delle montagne.
Mentre si scende comincia a farsi sentire il caldo. La temperatura è già oltre i 35°C quando raggiungiamo il sacrario di