Un viaggio in Ciad: verso la guelta di Archei e oltre
Febbraio 2012 – Diario di viaggio di Riccardo Caffarelli 15 giorniNel nord-est del Ciad, nel cuore del Sahara si trova la guelta di Archei, un piccolo bacino d’acqua tra alte pareti di roccia dove centinaia di dromedari arrivano per dissetarsi. Ma il Ciad offre anche tanto altro ai pochi viaggiatori che scelgono questo paese come destinazione del loro viaggio.
Sono stato in Ciad nel febbraio del 2012 attirato dalle descrizioni che, uno dei compagni di un altro viaggio africano, mi aveva avevo fatto della guelta di Archei.
Non sapevo bene cosa aspettarmi, l’unica guida che all’epoca avevo trovato era in francese e iniziava così “le Tchad des millénaires fascine, celui d’aujourd’hui se dévoile doucement aux rares voyageurs qui s’y aventurent”.
Per raggiungere la zona dell’Ennedi, dove si trova la meta principale del viaggio, bisogna percorrere oltre mille chilometri di strada, asfaltata solo per i primi duecento chilometri.
Per un paio di giorni il paesaggio è tipicamente saheliano, per chilometri, chilometri e ancora chilometri solo quella che qui chiamano la brousse attraversata da una striscia d’asfalto che poi diventerà una pista sterrata. La vegetazione è abbastanza rigogliosa, prevalentemente acacie ma di molte specie diverse. Poi tanti cespugli e ogni tanto gruppi di palme dum.
Piccoli villaggi ai bordi della strada e piccole mandrie di mucche, zebù e capre che spesso l’attraversano.
In queste zone è molto difficile trovare chi venda acqua minerale. Useremo l’acqua dei pozzi disinfettata con pastiglie di Micropur. Certo il sapore non è affatto buono e l’acqua, presa dalle taniche in cui la conserviamo, non è mai fresca ma dopo un po’ ci si abitua!
Ogni sera, prima di fare il campo, bisogna comprare la legna per il fuoco. Dopo aver montato le tende a ciascuno di noi viene data una bacinella piena d’acqua per lavarsi e, dopo il tramonto del sole, ci ritroviamo tutti intorno al tavolo (un asse di legno poggiato su cavalletti). In questo periodo il sole tramonta presto e quindi alle 19 è già ora di cena e alle 21, dopo un the e un po’ di chiacchiere, si va già a nanna per alzarci il giorno dopo alle 6. Presto il nostro orologio biologico si adatterà al sorgere e al calare del sole in un ritmo forse più naturale.
A mano a mano che andiamo avanti il paesaggio cambia, la vegetazione diminuisce drasticamente e compare la sabbia, spesso ricoperta di una sorta di paglia giallastra.
A metà del terzo giorno arriviamo a Kalait.
Non esiste sulla mappa, è un villaggio nato dal trasferimento degli abitanti di Oum Chalouba, diventato una base militare. Kalait ha l’atmosfera di un paese di frontiera, resa irreale dal gran vento che alza nuvole di sabbia. In effetti è l’ultimo centro abitato prima dell’Ennedi.
A Kalait facciamo un incontro molto particolare. Sotto una stuoia che lo ripara dal sole, è seduto un marabutto. Apre la sua sacca ne estrae uno scorpione. Sicuramente gli ha tirato fuori il veleno ma fa lo stesso una certa impressione il modo in cui lo tiene in mano. Arriva un cliente e il marabutto usa lo scorpione per benedire un gri-gri, un talismano che l’uomo porta appeso al collo.
Finalmente all’orizzonte compaiono le prime formazioni rocciose. Siamo arrivati ai margini dell’Ennedi.
Il massiccio dell’Ennedi è come un mare pietrificato di arenaria che sorge in mezzo alle sabbie del Sahara. Nella sua parte più esterna il massiccio è stato scavato dal tempo nelle forme più varie: pinnacoli, canyon, torrioni, rocce in bilico, archi, grotte. Il tutto reso più suggestivo dalla sabbia che si insinua tra le rocce creando magnifici contrasti di colore e dalle pitture rupestri che ogni tanto si incontrano.
Dopo tre giorni in cui abbiamo piantato le tende in zone pianeggianti e aperte su un lontano orizzonte, stasera ci fermiamo, tra un roccione massiccio e un pinnacolo affusolato, in un avvallamento tra una piccola duna e una ben più alta che si inerpica verso altre formazioni rocciose.
Qui i tramonti sono magnifici e la notte è un tripudio di stelle.
Per arrivare in vista della guelta di Archei da un punto privilegiato, si sale lungo un sentiero roccioso per un’ora buona fino a sbucare su una sorta di balcone naturale che si affaccia sulla guelta che si trova settanta o anche cento metri più in basso.
La guelta di fatto è costituita da una pozza d’acqua che si snoda tra due alte falesie che formano le gole di Archei.
Nessuna foto può rappresentare pienamente quello che si prova a stare lì. E soprattutto nessuna foto può trasmettere le sensazioni che si provano, o almeno che io ho provato, sentendo il suono prodotto da tanti dromedari amplificato dalle pareti della gola.
Non so come si chiami il verso del dromedario, da qualche parte ho trovato blaterio. Non so, ma so che a me l’echeggiare di tanti blaterii ha dato la sensazione di sentire un lamento struggente che saliva dal fondo della gola. Forse non proprio un lamento, non so come spiegarlo, ma comunque era struggente. Era il suono di tante creature felici di trovarsi finalmente al fresco e con la possibilità di bere a sazietà. Almeno così mi piace pensare.
La sosta nei pressi di un pozzo è sempre molto emozionante. Quasi sempre c’è una piccola folla di esseri umani e di bestie che si muove affaccendata in attività diverse. Chi a bere e chi a procurare l’acqua.
Nel suo libro “Il viaggiatore delle dune” Theodore Monod scrive “Nel Sahara dunque dite ‘Cosa berremo? ’, e preoccupatevi sempre dell’indomani; ne va della vostra pelle…Si muore di sete solo per imprudenza. Prese tutte le precauzioni resta ancora l’incidente sempre possibile…il pozzo introvabile, la cavalcatura che cede, l’otre che si spezza.” “Non sorprende, dunque, che il pozzo d’acqua e il pascolo – perché se l’uomo non può vivere senza bere, il suo cammello non può vivere senza mangiare – siano le due principali preoccupazioni del navigatore sahariano”
Attraversata la parte interna dell’Ennedi, piuttosto piatta e monotona, il paesaggio torna bello, sabbia e rocce lavorate dal tempo.
Da qui si deve attraversare la depressione del Mourdi. Si tratta di una vasta distesa di sabbia che separa il massiccio dell’Ennedi dal gruppo montagnoso dell’Erdi. Per lunghe ore la pista si snoda dritta verso un orizzonte piatto. Sabbia a perdita d’occhio con piccole dune barcane che ogni tanto movimentano appena il paesaggio.
La pista è indicata solo da alcuni bidoni semi-insabbiati e molto distanti tra loro.
Dopo tanta sabbia arriviamo in vista dei laghi Ounianga, splendide oasi nel deserto.
Il villaggio di Ounianga Kebir è veramente un luogo desolato ma ha un suo fascino. Camminiamo a lungo sotto il sole che, nonostante il vento teso, si fa sentire. Piccole case sparse, qualche baracca, non mancano i corvi che volteggiano neri nel cielo. Però, qua e là, anche immagini che alleggeriscono l’atmosfera un po’ cupa: la pubblicità di un operatore telefonico e, soprattutto, la farmacia della speranza!
Ci immergiamo nuovamente nel deserto e dal deserto …… affiorano i segni della guerra! Sono quello che rimane dell’occupazione libica terminata nel 1987.
La strada del ritorno attraversa altri luoghi bellissimi e pieni di suggestioni, dune, rocce, carovane di dromedari.
E alla fine, dopo 13 giorni in tenda lontani da tutto, torniamo purtroppo a N’Djamena e già so che il Ciad mi mancherà.
Soprattutto mi mancheranno le contorte scogliere di arenaria dove il deserto si infrange con onde di sabbia che si insinua fra guglie e pinnacoli.
Mi mancherà la guelta di Archei con i versi dei dromedari, “ebbri” d’acqua, che rimbalzano tra le pareti della gola.
Mi mancheranno i pozzi dove si affollano uomini e bestie in cerca del bene più prezioso.
Mi mancheranno le albe, i tramonti e le notti stellate nel deserto.
E forse mi mancherà persino il vento che per molte notti ha scosso la mia tenda che ostacolava il suo andare!
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