Viaggio al Cono Sur: cose da fine del mondo

Gennaio-febbraio 2013 - Diario di viaggio di Mariano Gosi
25 giorni

Struttura

Il viaggio in una conchiglia

era la guerra obscura del corazón…

 

Parte prima: Ce la facciamo a stent.

  1. Dagli Appennini alle Ande
  2. Che notte, quella notte!
  3. Io speriamo che me la cavo

 

Parte seconda: Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati.

  1. Il Canale di Beagle: Ushuaia e dintorni
  2. L’oasi in città, a El Calafate
  3. Al ghiacciaio Perito Moreno
  4. La calle Florida a Buenos Aires
  5. Tanto Tango
  6. Ultima tappa, il Cimitero

Il viaggio in una conchiglia

Il piano di viaggio prevedeva, in venticinque giorni tra gennaio e febbraio: trekking in Patagonia (nel Parque Nacional Torres del Paine in Cile ed escursioni al Parque Nacional Los Glaciares) a partire dalla cittadina di El Calafate; visita di Ushuaia e dintorni, in Terra del Fuoco; vagabondaggio nella zona pre-andina circostante Salta, al nord; e sosta a Buenos Aires tornando a Roma. Una vacanza desiderata da anni e preparata da mesi, prevalentemente dedicata al godimento delle meraviglie naturali di una zona sconosciuta.

Nelle pagine che seguono si descrive lo sviluppo del viaggio, diverso da quello previsto.

Arriviamo a El Calafate da Roma via Buenos Aires, in Cile in bus. Dal rifugio Torres, facile salita al Mirador Torres e pausa di un giorno; il terzo giorno trasferimento al rifugio Paine Grande in catamarano ed escursione al vicino Mirador con vista sul ghiacciaio Grey. Il quarto giorno, escursione al Mirador Francés. Verso mezzanotte, dolore fortissimo al petto e soffocamento, per una lunga ora. Non c’è nessuno minimamente qualificato da consultare, il rifugio è poi immerso nel buio totale, ma riusciamo a guadagnare la nostra camerata. Il mattino mi sento quasi normale e verso mezzogiorno lasciamo il rifugio per approdare in tarda serata all’ospedale di El Calafate, dove sono ricoverato per cardiopatia ischemica. Beneficio di un’assistenza impeccabile, passo a un centro specializzato a Buenos Aires dal quale esco il giorno dopo, salvo, pronto a nuove avventure. Tutti si sono complimentati per la mia buona sorte, che però non andrebbe tentata ulteriormente. Il sistema di gestione del rischio va rivisto.

Dopo una settimana a Buenos Aires (affascinante per i resti della passata opulenza, ma fa un caldo…), ottenuto il nulla osta al volo da Aerolineas Argentinas, ripartiamo per il Sud, prima Ushuaia e poi El Calafate. Salta, salta.

La ballata qui sotto è evoluta in un testo-crisalide di due parti, ancora lontano dalla forma adulta. Gli episodi contenuti nella prima sono dedicati al trekking e alle vicende cardio-circolatorie; il resto del viaggio è raccontato in frammenti raccolti nella seconda.

Le vicende narrate sono vere, salvo occasionali deviazioni dal diario di viaggio tenuto da Maria Antonietta, autrice anche della parte più leggera del divertissement, le fotografie.

Se la lettura ha provocato un brivido o un sorriso, un commento, anche lapidario, è dovuto.

Parte prima: Ce la facciamo a stent.

 

  1. Dagli Appennini alle Ande

Ieri sera abbiamo abbracciato nostro figlio all’aeroporto di Roma, stamattina attraversato una Buenos Aires deserta, sospesa nel sonno di una domenica estiva, e ora siamo a El Calafate, in Patagonia, nel profondo sud dell’Argentina. Sull’Avenida del Libertador ciondolano turisti programmati e viaggiatori senza fretta, interessati alle pasticcerie, ai ristoranti e ai trofei da riportare in patria. Appena fuori del paese si accede a un mirador. A metà salita mi gira la testa, sudore alla fronte, uno strano groppo in gola, affanno e un vago indolenzimento delle braccia, faccio fatica a raggiungere la piattaforma. Montagne lontane e scorci dell’immenso lago Argentino fanno da sfondo a reciproche foto. Seduti su una panchina, concordiamo nell’attribuire il malessere alla stanchezza del viaggio, poi ci spostiamo al vicino ristorante La Tablita: attesa in compagnia di altri avventori e di tre abbacchi, crocefissi alla patagonica, oltre la vetrata. Sto decisamente meglio, anzi bene. Ci offriamo abbacchio crocefisso e filetto al sangue e facciamo conoscenza con il rosso Malbec.

L’indomani alle cinque si parte in bus per il Parque Nacional Torres del Paine in Cile, per percorrere il circuito “W”. Davanti a noi, un’attempata coppia di canadesi facoltosi: lui segue l’itinerario sul portatile e lei sbocconcella il contenuto del cestino da viaggio; alloggeranno quattro giorni presso il costoso hotel Torres. Di fianco, uno spagnolo un po’ spaesato, con sacco, rotolo di stuoia, sacco a pelo, non ha un programma predefinito.

Gli altri passeggeri sono meno visibili. Sugli sconfinati pascoli grigiastri delle estancias, qua e là guanachi e ñandú, esili semilune rosa di flamencos sulle rare pozze, malinconici bovini nei pochi fondovalle. Ma, le pecore e i gauchos dove sono? Avvicinandosi al Cile, s’indovina un miglioramento del regime pluviometrico e dello stato dei pascoli. Il pomeriggio, nel Parco, dopo un malore analogo al precedente, ci domandiamo se sia ancora realistico il programma di camminare da sette a dieci ore al giorno per cinque giorni, con uno zaino di otto chili, dormendo nei rifugi e raggiungendo vari mirador (qui, le vette sono oggetto di “conquista” per pochi eletti, la massa si deve accontentare di una più platonica ammirazione).

Alloggiamo al Rifugio Torre da dove, al mattino del giorno seguente, ci avviamo cercando di rispettare le opere di ricostituzione del manto erboso compromesso da sovrappascolo e trekking selvaggio. Incrociamo il giovanotto spagnolo, che scende caracollando: ha dormito al rifugio Chileno, torna dal Mirador Torres e va a dormire al rifugio Cuernos. Ha trovato l’ascesa più difficile del previsto, ma ce l’ha fatta, è soddisfatto. Superiamo il Chileno e, dopo un ultimo strappo, siamo al Mirador Torres. Sovrastano un modesto lago e il ghiacciaio le imponenti torri sorvegliate da fotografi in attesa del momento magico senza nuvole:

Tra grigi picchi,

croce nera nel cielo

plana il condor.

foto rituali, poi discesa al rifugio, ottocento metri più in basso. Si risvegliano antichi dolori sopiti (che ci sia una parentela tra alluce e allucinante?) e la marcia diventa un tormento. Semi-azzoppati, ma determinati, cambiamo programma e al rifugio Paine Grande ci andiamo in catamarano, attraversando il lago Pehoe. In itinere, conosciamo una coppia di giovani francesi: lui sembra un fotografo freelance, lei lavora per un’Organizzazione non governativa; simpatizziamo parlando di sviluppo in Africa. Li vediamo montare la tenda fuori del Paine Grande, saranno sempre davanti a noi sul sentiero, ci incontreremo ancora ai Miradores Grey e Francés, dove ci scatteranno foto con la nostra macchina. Ci diamo appuntamento a El Chalten dopo due giorni, per riprendere la conversazione. Il Mirador Grey è vicino al rifugio e non impegnativo. Si attraversano tratti di rado bosco di Nothofagus, alcuni devastati da incendi anche recenti.

Lenga contorto,

piccole foglie dure

contro il vento.

Nelle acque lattiginose o grigio-ferro (il sole viene e va) del lago Grey galleggiano piccoli iceberg. Sul piazzale, finalmente, raffiche di vento gelido ci spingono e ci scuotono, lo sguardo si perde lontano oltre il fronte imponente del ghiacciaio, sfiorando i crepacci bluastri. Il giorno dopo, la foto al cospetto del Mirador del Francés esige uno sforzo notevole, ma ce la facciamo nei tempi canonici, nove ore: si costeggia il lago Nordenskjold, poi si segue il sentiero che s’impenna lungo il torrente fino ad arrivare su una cresta, in vista (superba) del ghiacciaio che sale verso il Cerro Paine Grande, di fronte al Corno Grande, e dei laghi Pehoe e Nordenskjold che si allungano in basso. In discesa, stavolta procediamo con cautela godendoci la lunga passeggiata nel pomeriggio assolato (dolce profumo di trifoglio bianco e chiazze di fiori gialli tra i tronchi carbonizzati). Ci meritiamo una lunga notte di riposo, prima del ritorno in Argentina. La sera, bilancio complessivo: ci ha impressionato l’urgenza degli escursionisti sui sentieri troppo affollati, in contrasto con l’immobilità inalterabile dei laghi e dei ghiacciai, che offrono inconsueti paesaggi incantati.

  1. Che notte, quella notte!

Verso mezzanotte, in uno degli ampi spazi comuni del rifugio Paine Grande riservati agli ospiti, due cileni e due italiani si confrontano su natura e cause dello stato semi-comatoso di uno di essi. Quest’ultimo si è svegliato da una buona mezz’ora con un sordo dolore al petto. Quando il dolore si è fatto insopportabile, dopo essersi rivoltato nel letto con i convulsi movimenti del serpente vittima di un impietoso colpo di bastone, si è deciso a svegliare la moglie: “Antonietta, sto male, non so cos’ho, ma sto male, malissimo, per favore usciamo”. Di familiare, ci sono anche il sudore freddo alla fronte e il dolore alle braccia, stavolta però non c’è affanno, ma mancanza d’aria. E così mi sembra di poter smettere di respirare da un momento all’altro, definitivamente. Sì, mi, perché sono proprio io il protagonista di questa drammatica vicenda. Usciamo dalla camerata per ansimare, tossire e sputare liberamente e permettere agli altri sfortunati ospiti della camerata di riaddormentarsi. Al bagno, scopriamo venature rosse nel muco che emetto tra un rantolo e l’altro e che si accumula nel sacchetto di plastica (ahimè, trasparente) che reggo furtivamente con la mano sinistra. La destra stringe la spalla di Antonietta.

Perveniamo in una sala dove qualcuno dorme su un divano: è la guida con cui c’eravamo incrociati nel rifugio e al Mirador del Francés alla testa (veramente, marciava in coda come certi cani pastori) di un gruppo misto di turisti inglesi, un giovanotto simpatico e disinvolto. Oltre una finestrella illuminata, un’impiegata mette in ordine le pile di fotocopie dei passaporti degli ospiti raccolte durante la giornata. Tiriamo un sospiro di sollievo: qualcuno che può darci una mano, un consiglio, un conforto. E ci sediamo sull’altro divano. Ognuno dei quattro avanza la sua ipotesi: per l’impiegata si tratta di tubercolosi, in considerazione del colore degli espettorati prodotti ormai a ciclo continuo; per la moglie, di esofagite acuta, per intuito femminile; il diretto interessato azzarda un’asma, magari di origine allergica, per mancanza di fantasia. La guida, infine, considera che mancano i dati e le competenze necessari per una diagnosi seria, però esclude il corazón dal novero degli organi responsabili (tranquiiilos, no se preocuuupen). Nessuno di loro ha il coraggio di difendere seriamente la propria ipotesi, ma sicuramente due di essi hanno sonno e gli altri sono smarriti e ormai quasi privi di forze. Nelle more dell’imbarco per il ritorno alla civiltà però, sarebbe opportuno capire come conviene organizzarci, visto che “S’ha da aspetta’. Ha da passa’ ‘a nuttata”. La giovane guida propone un rimedio che ha funzionato con suo padre in situazioni analoghe: tè caldissimo con miele, che lui porta sempre nello zaino, quale panacea universale per eventuali malesseri dei suoi prodi seguaci. L’impiegata lascia le preziose fotocopie e scende in cucina, lui altrove, noi rimaniamo sul divano col sacchetto il cui peso aumenta inesorabilmente. Finalmente, brindiamo con il tè bollente, il mio, dolcissimo, ha un effetto benefico (un grazie doveroso vada alle alacri api cilene!). I due soccorritori ne sono orgogliosi e si sentono legittimati a suggerire di terminare la spossante giornata ciascuno nel proprio letto.

C’è un dettaglio: è l’una e mezza ed è arrivata l’ora di spegnere la luce in tutto il rifugio, la regola viene dall’alto e non si deroga. Tossisco ancora incessantemente e non possiamo rientrare nella camerata, dunque ci ritroviamo sul divano nel buio pesto, allibiti, ma impotenti, con il nostro fedele sacchetto. Si stanno facendo le ore piccole e comincia a far freddo. Ah, dimenticavo: nel rifugio non c’è nessuno con conoscenze medico-sanitarie neanche di livello minimo. La consultazione del registro degli ospiti da parte dall’esperta di documenti d’identità ha dato esito negativo e dunque, purtroppo, non c’è niente da fare. Per fortuna, non siamo ancora del tutto coscienti del pericolo che ci sovrasta… Al buio, ci sentiamo come in fondo al mare. Il tempo passa lentamente, ma ci distraiamo pensando a come tornare a letto. Poi, riverberi promettenti barbagliano nel corridoio. Siamo protesi, calamari stregati dall’incerto bagliore intermittente, dall’intensità crescente dei riflessi. Ecco la luce viva, che sgorga direttamente da una testa umana, come di palombaro. La figura indistinta attraversa silenziosa la sala, verso il bagno. Aspettiamo che la preda ripassi per tornare alla sua tana. L’espressione della ragazza giapponese, quando due ombre in tuta le piombano addosso, è indimenticabile. Accelera, sciabolando il raggio luminoso, ma noi non la molliamo. È una serata fortunata: il terzetto passa proprio davanti alla porta della stanza giusta, freniamo per buttarci dentro (chissà come le avrà battuto il cuore a quel punto), la liberiamo, “Thank you”. Forse, anche lei ci metterà un po’ di tempo per addormentarsi, poveraccia. Ci sistemiamo nel letto in basso, stretti uno contro l’altra.

La mattina, sono ancora provato, ma mi preparo e scendiamo. Antonietta è tornata alla Reception, ma un ulteriore controllo del solito libro degli ospiti è risultato infruttuoso e la proposta di usare l’altoparlante per snidare un dottore eventuale tra gli ospiti, che intanto sciamano dal rifugio, non trova accoglienza positiva. Ci sarebbe un catamarano alle 9:00, ma noi partiremo con quello delle 12:30. Il bus con cui torneremo a El Calafate ci raccoglierà alla Laguna Amarga, all’entrata del Parco, alle 16:30, dunque meglio lasciar passare il tempo nel rifugio, piuttosto che a un trivio polveroso e assolato. Prima di lasciare il rifugio, ho un altro insulto leggero mentre registro sul libro apposito la mia posizione sulle policy di gestione della illuminazione nei rifugi, con opportuni caveat e raccomandazioni. Come sarei felice nell’apprendere che qualcuno ha fatto causa al rifugio e l’ha vinta per un incidente dovuto al buio!

La fila in attesa del catamarano inizia a formarsi con un certo anticipo, sarà il timore di restare più del previsto? Alcuni camalli locali scaricano una chiatta con carrelli da miniera. Tento di fotografarli, ma non sono abbastanza abile da rendere gli aspetti arcaici del processo. Due brasiliani vicino a noi annuiscono con sguardi d’intesa. Intanto, il catamarano ha rovesciato a terra fiotti di forzati del trekking e sta imbarcando quelli del nostro turno. Meno male, il sole e chissà che altro mi stavano facendo girare la testa. Ho notato che mi osservo con preoccupato interesse, dopo la notte di tregenda. Antonietta mi tiene sotto controllo, mi chiede come sto, si carica del mio zaino. Uno dei due brasiliani della fila, che mi ha detto di essere infermiere, ha un braccio al collo per una caduta avvenuta a due o tre rifugi di distanza e non è riuscito a trovare nessuno che prendesse in considerazione il suo problema. Solidarizzo. Certo, un infermiere dovrebbe essere capace di darsi delle risposte in casi come il suo, mi dico. Vinco la timidezza e gli propongo il mio caso. È la prima volta che racconto la storia ed ho qualche esitazione, in seguito acquisterò scioltezza e precisione. Mi elargisce alcuni consigli: evitare sforzi, quando arriva la botta, respirare regolarmente e prendere una certa posa, che mi mostra (credo simile a quella del Pensatore[2]), indi, con calma, consultare un medico. Ma, quali potrebbero essere le cause? Varie, tra l’altro la fuliggine provocata dagli incendi, pollini cui non siamo abituati. Non mi convince, ma sono contento della conversazione in portoghese, lingua che amo. In mezz’ora siamo alla Laguna Amarga. Per fortuna ci sono i bagni, un ufficio deserto con una tettoia e panche di legno, dove ci installiamo, e un discreto traffico di mezzi, persone e svogliati guanachi, che ci distrae da funerei pensieri.

Il piccolo bus arriva puntuale, siamo contati più volte e finalmente si parte. Alla frontiera, qualche lungaggine, poi trasbordiamo nel bus lussuoso e veloce che percorrerà la strada dritta e monotona fino a El Calafate in circa quattro ore. Non abbiamo visto un ettaro coltivato (a parte alcuni campi di erba medica in Cile), i centri aziendali visibili dalla strada sono pochi e lontani, non ci sono quasi segni di vita. Come saranno questi pascoli quando tira vento? Penso ai mulinelli di sabbia nel deserto. Le pecore saranno sui pascoli estivi, nei fondovalle i bovini sono sempre al loro posto. Si ha una sensazione d’immobilità. Lo sguardo di Antonietta che non mi si scolla di dosso, non mi rassicura, ma capisco e condivido. Verso le 22:00, arriviamo a El Calafate, che ci sembra sempre più una città del deserto, imbrunisce. Quasi non facciamo caso al lieve malore che occorre al momento dell’ultimo cambio di bus. Il gestore dell’albergo ci dirotta verso l’ospedale, che si trova a pochi passi. Un lamento di nitticora ci sorvola mentre filtriamo, mano nella mano, attraverso il muro di pioppi tremuli nel crepuscolo australe. Racconto particolareggiato degli eventi, risposte precise a precise domande della dottoressa del pronto soccorso e finisco in Terapia Intensiva. Il cardiologo ci raggiunge, mi visita, scorre i risultati dei primi esami e ci informa: Angina de Reciente Comienzo de Moderado-Alto Riesgo. In chiaro, ci spiega che si è trattato di crisi coronarica acuta che ora può evolvere in infarto o decesso improvviso, ma vuole essere sicuro che abbiamo capito e ripete: “¿Me entienden?”. L’ospedale non è attrezzato per interventi sofisticati, con la terapia post-infarto (riscontrata troponina), si cercherà dunque di stabilizzare l’angina per permettermi di tornare a Buenos Aires e sottopormi a esami approfonditi ed eventuali interventi. Rimarrò sul lettino legnoso, ormeggiato con doppia flebo e cavetti per il monitoraggio, sotto osservazione per almeno settantadue ore, prima di salpare nuovamente. Intanto, lasciamo passare un’altra nottata…

3. Io speriamo che me la cavo

È domenica mattina, sono nel reparto Terapia Intensiva dell’Hospital Distrital Dr. José A. Formenti di El Calafate. Ho dormito bene, grazie a provvidenziali sedativi e sono ancora intontito, mentre Antonietta è reduce da una notte agitatissima. La prima settimana del viaggio si è svolta come programmato, pur con lievi aggiustamenti. Avrebbe potuto evolvere in maniera tragica, ma possiamo sperare di essere ormai quasi al riparo da incidenti. Per ora, mettiamo da parte rabbia e indignazione per il trattamento ricevuto al Paine Grande. Incredibile, comunque, che in quel rifugio, situato in un punto strategico nel Parque Nacional Torres del Paine, visitato ogni anno da oltre 100.000 turisti, non ci fosse nessuno capace di garantire un’assistenza, anche minima, in caso di infortunio. Per questa settimana, avevamo un programma a base di escursioni nel Parque Nacional de los Glaciares: ma accontentiamoci, sono ancora vivo e relativamente vegeto.

Dobbiamo aspettare che le settantadue ore di monitoraggio passino senza nuovi episodi e quindi andare a Buenos Aires. E dobbiamo farlo cercando di non lasciarci abbattere dal mantra del cardiologo Gustavo, che risuona iellatorio “¿Me entienden?”. Delle tre notti, la prima è passata e questa è una consolazione, dopo la notte bianca al Paine Grande. Che faremo? Per prima cosa, dobbiamo annullare le prenotazioni di alberghi e trasporti e attivare l’assicurazione. Informeremo la famiglia, in Italia, quando avremo indicazioni chiare sul da farsi o addirittura a cose fatte. Meglio non allarmarli, per ora.

La stanza nella quale mi trovo ha tre letti, in uno di questi si agita un anziano signore con problemi all’apparato gastro-intestinale. A Eduardo, l’infermiere che lo aiuta a vestirsi per recarsi in bagno e gli domanda se sente freddo e se tutto va bene, risponde orgoglioso e definitivo: “Yo soy patagonico” e si avvia a testa alta, impettito, con Eduardo di fianco, pronto a sorreggerlo. Questi è un giovane simpatico, sempre presente e sollecito. Originario di Misiones, parla un po’ di brasiliano che usa per fare il verso ai cugini d’oltre confine e, sospetto, un po’ anche a me. A una mia domanda sulle caratteristiche degli abitanti della Patagonia, commenta che in Argentina sono state creati la razza canina Dogo per la caccia al puma e l’Uomo Patagonico per attività produttive e non, in condizioni ambientali estreme.

Il secondo giorno, in tarda mattinata, è ricoverato un anziano signore quasi privo di sensi. Con lui è un trekker che si dichiara cittadino statunitense e medico. Ha taglio dei capelli, baffi e piglio da militare, e fornisce le prime informazioni essenziali sul collega steso sul letto accanto al mio: anche lui medico, è caduto e ha perso i sensi ed ha il diabete. Il medico militare è nervoso, forse vorrebbe prendere in mano lui la situazione. Fuori, preme una piccola folla di trekker, qualcuno s’insinua nella stanza. Del gruppo, nessuno parla spagnolo e viene chiamata una guardia della sicurezza che se la cava bene con l’inglese. Il medico ferito risponde a fatica ad alcune domande, non si capisce cosa possa avere che non va, ma sembra grave, ha un guizzo e finisce a terra. Lo trasferiscono su un letto con sbarre laterali nella stanza vicina. Apprezzo l’iniziativa, vista l’invadenza dei suoi compagni. Sarà operato (la radiografia rivelerà che una costola ha perforato un polmone) e trasferito a Buenos Aires e poi negli States.

Nel letto d’angolo c’è una signora, accudita dal marito, mani scure, forti, vestito modestamente, con basco patagonico e scarpe di pezza. Usciranno presto, sempre silenziosissimi. Più tardi, irrompe un giovane trio italiano: l’inferma è lei. Cammina sorretta dal marito e dal fratello, sembra allo stremo, scossa da tosse e conati di vomito. I due la adagiano sul letto e tornano con valige e zaini, che sistemano in un angolo e ripartono alla ricerca di un alloggio. Con il personale, i tre usano un idioma ispano-casentinese non privo di una certa musicalità e comunque intellegibile. Quando, in assenza dei congiunti, mi sono offerto come interprete tra l’inferma e i medici dell’ospedale, è apparso subito chiaro che il problema non era di comunicazione, ma si articolava sulla differenza di visione in rapporto alla terapia da seguire. Apprenderemo che la ragazza è una pediatra, soffre di diabete ed ha spesso crisi come l’attuale, di durata imprevedibile. Quando i due tornano, comunicano di avere scoperto un posto dove, con pochi soldi, si può mangiare un ottimo controfiletto. Prima di ripartire, s’impegnano in un arditissimo esercizio di ripartizione delle spese, alcune per tre, altre per due, alcune usando il tasso ufficiale e altre quello parallelo. Devono avere una lunga consuetudine, poiché riescono nell’intento senza calcolatrice e senza alterarsi o litigare. La pediatra, intanto, vomita ogni singola goccia d’acqua che prova a deglutire per ingoiare le medicine somministratele dopo la lunga negoziazione con il medico specialista. Per Eduardo, i malati medici sono i pazienti più difficili. L’indomani, la pediatra è trasferita in un altro reparto e finiscono le discussioni sulla terapia e le esercitazioni di contabilità.

Una sera, passa il direttore e facciamo due chiacchiere. Ha un nome italiano sul camice, mescola un po’ le lingue, è orgoglioso delle sue origini. Di nomina recente, ma nell’ospedale da molti anni, non è ancora del tutto soddisfatto dell’organizzazione interna (che a me sembra eccellente e che metto in relazione anche con la sua presenza notturna), ma ci sta lavorando. Mi accenna alle condizioni vantaggiose offerte dall’amministrazione per attrarre personale qualificato, si parla di scelte di vita. Gli dico che mi sento a mio agio, si mangia discretamente e c’è sempre qualcuno che bada a mantenere pulito l’ambiente, come l’indio con la treccia (l’unico autoctono che si vede in giro) che si aggira silenzioso e sorridente con spazzolone e secchio. Parliamo anche della sua vita privata (viaggi in Italia, studi delle due figlie, vita in Patagonia e non solo) e della situazione economica italiana ed europea. Della crisi dice: ne uscirete, come ne siamo usciti noi. Non mi pare sia proprio così, ma annuisco speranzoso.

Le giornate passano tra sonnellini, elettrocardiogrammi, analisi, fleboclisi e ingestione di pillole e di pasti, con l’assistenza di Antonietta. Finisco “In Patagonia” di Bruce Chatwin e attacco “Terra del Fuoco“ di Francisco Coloane. La giornata si chiude, in genere, con la visita del cardiologo, che ci ha impressionato per la sua professionalità e il tratto umano. Le notti trascorrono serene. Antonietta arriva sempre di buonora e rimane vicina, pronta ad assistermi; ha provveduto alle cancellazioni e alle comunicazioni con l’aiuto del gestore dell’albergo. Continua a dormire male, ha un herpes a un labbro ed è molto tesa, ma riesce a non darlo a vedere, anzi ostenta sicurezza e ottimismo, come faccio io, d’altronde. Abbiamo stabilito il contatto con l’assicurazione, che ci segue assiduamente da Roma e da Buenos Aires. Le mie condizioni evolvono in linea con le previsioni più ottimistiche e, autorizzata dal dottore la partenza per Buenos Aires fra due giorni, scriviamo un messaggio ai figli, Federico ed Eleonora, a Roma per informarli della situazione e del prossimo rientro. Nonostante il tono rassicurante del messaggio, fioccano numerose telefonate allarmatissime e ci prodighiamo per tranquillizzarli. Da quel momento figli e sorelle ci sono vicini, si profila addirittura l’eventualità di un soccorso.

La quarta notte, allo scadere delle settantadue ore, verso le tre, mi sveglio sudatissimo e con un lieve soffocamento che dura forse una decina di minuti. Il mattino, gelo Antonietta, Gustavo e Eduardo con la ferale comunicazione. A questo punto, il mio trasferimento a Buenos Aires va effettuato con un aereo sanitario. Trasmettiamo all’assicurazione la richiesta di trasferimento urgente per coronografia e angioplastica preparata da Gustavo. L’assicurazione sembra cercare pretesti per chiamarsi fuori: vorrebbe da Gustavo una dichiarazione che io non ho precedenti cardio-circolatori, ma la cosa non è fattibile. Allertiamo Federico, che prende in mano la situazione: procura loro un certificato del mio medico di famiglia, chiarisce l’interpretazione di alcune clausole apparentemente dubbie e finalmente la situazione si sblocca e il trasferimento è autorizzato. Siamo tutti sollevati, anche Gustavo e il direttore che, ho avuto la sensazione, desiderano ardentemente che lasci l’ospedale al più presto. Gustavo ci informa che sarò ricoverato nel Sanatorio de los Arcos, policlinico privato tra le migliori strutture sanitarie argentine. Nell’occasione apprendo che l’ex-Presidente della Repubblica Néstor Kirchner è morto d’infarto cardiaco proprio in questo ospedale, a El Calafate, nell’ottobre 2010, dopo un intervento di angioplastica nel Sanatorio de los Arcos un paio di mesi prima. Ultima ora! L’aereo arriva alle dodici del giorno seguente. Informiamo i figli e li ringraziamo per la loro affettuosa costante presenza, soprattutto Federico per il suo intervento, che è stato decisivo.

La mattina presto entra un simpatico vecchiotto con inspiegabili dolori alle ossa. Lo sistemano nel letto vicino al mio. Il vecchiotto ha una molteplicità impressionante di esperienze e d’interessi che vanno dalla cucina (il padre, spagnolo, era cuoco in un ristorante famoso di Buenos Aires), alla storia romana (ne discute con competenza con Antonietta). Ci racconta brani della sua vita (ha chiuso la sua carriera come decoratore, ma ha fatto molti altri mestieri tra i quali l’intendente per una compagnia petrolifera in Patagonia, il commerciante di pellami e altre merci, il trasportatore). Ci svela i segreti dell’escabece, è in grado di soddisfare le nostre curiosità sull’Argentina del tempo che fu. Siamo travolti e affascinati, peccato doversene andare…

Alle 11:30 arriva l’ambulanza, il direttore e Gustavo ci abbracciano, Eduardo ci consegna la preziosa cartella clinica da presentare a Los Arcos e partiamo per l’aeroporto accompagnati dai loro auguri, da un cardiologo e dall’infermiere Josè, anche lui molto premuroso. L’aereo arriva da Buenos Aires con un cardiologo e un’infermiera. Sono ceduto ai nuovi angeli custodi che fanno domande, riempiono formulari e ci prendono in consegna. Nuovi abbracci e auguri, ancora qualche foto e finalmente ci imbarcano.

Sono munito di maschera a ossigeno per superare in sicurezza la delicata fase del decollo. Il cardiologo è al suo primo viaggio, ma disinvolto; l’infermiera ha al suo attivo molte ore di volo ed è lei che dirige le operazioni. Antonietta, al finestrino, descrive il paesaggio: Ande, laghi, ghiacciai immensi, peccato…, ma torneremo! Dopo un po’, vengono prodotti dei pasticcini, altre foto, si parla di tutto, Antonietta usa disinvoltamente il suo portugnol ormai collaudato riscuotendo anche sinceri complimenti. Stupisce i due, che non hanno mai varcato i confini nazionali, con racconti su Europa e altri continenti con i quali abbiamo familiarità. In cambio, siamo informati su temi fondamentali quali crisi economica, occupazione, sicurezza e altri più frivoli nell’area dello spettacolo e della gastronomia. Mangiamo ancora qualche dolcetto, per cortesia. Alle 16:30, dopo tre ore di volo in piacevole compagnia, arriviamo a Buenos Aires. Un’ambulanza guidata da un autista esagitato ci trasporta all’ospedale. I miei angeli riescono a stabilizzare la flebo e i bagagli in libertà nell’abitacolo. Se si voleva distrarci in vista dell’imminente prova, missione compiuta.

Viaggio in orizzontale da quando sono partito da El Calafate e non vedo praticamente nulla al di fuori del mezzo di trasporto. Antonietta mi ha tenuto informato della nostra posizione. All’entrata della clinica ci separiamo (anzi, ci separano!): lei è risucchiata in amministrazione, io nella cosiddetta shock room dalla quale passo nell’Unità coronarica, per accertamenti e preparazione. Nella stanza si avvicendano almeno cinque tra infermieri e medici, nel giro di un’ora sono pronto e ho autorizzato l’intervento. Tutto appare moderno, nuovo, lucido, pulitissimo, asettico, organizzato, iper-sottocontrollo, in un’atmosfera da serie TV tipo Medici in prima linea. Nella stanza, ci sono al muro ampolle dalle quali tutti pompano un liquido con cui si sciacquano le mani anche solo dopo avermi guardato; nulla si usa due volte: tute di carta, copricapo, siringhe, guanti, proprio nulla. Finora, nessuno mi ha detto “Tranquilo”, probabilmente non ce n’è bisogno, ma alcuni si sono complimentati per la mia fortuna. Su una barella con ruote di gomma lubrificatissime scivolo fino alla camera operatoria come in sogno, nudo come un pesce. Qui, un’infermiera mi tiene per mano e mi dice delle cose, suppongo per incoraggiarmi. Non mi hanno spiegato quel che mi faranno: pazienza, tanto non mi addormentano completamente e potrò essere della partita.

C’è un numero imprecisato di persone, nella sala, tutte debitamente mascherate. Il chirurgo svetta su tutti e dirige le operazioni con voce piana. Perdo il contatto con l’infermiera, che si appiattisce contro la parete e mi tiene d’occhio. Qualcun altro prende la mia mano, non vedo cosa fanno gli uomini mascherati, ma sento frugarmi dentro. Verso la fine, batto i denti senza più controllo ed ho una sete da naufrago. L’infermiera da tempo fa segno che sta per finire, finalmente le maschere verdi si ritirano e mi riportano in camera. Mi hanno applicato uno stent a una coronaria che era ostruita per il 90% con un grave rischio d’infarto, mi dicono, bella fortuna, ripetono. Concordo e così anche Antonietta che nel frattempo si è macerata nell’attesa fuori di varie porte. A Roma, esultano. Il mattino seguente, Antonietta mi trova sbarbato e ripulito: ringiovanito, dice. E il pomeriggio mi dimettono. Usciamo nel traffico di Avenida Juan B. Justo, con compact disc del filmino dell’intervento e prescrizioni varie. Di là del muraglione sferraglia un treno. “Che facciamo? “Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare.”. Senza strafare. Andiamo.

L’anatra plana,

ammara: shah, annaspa.

Canta, s’alza: va.

Parte seconda: Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati.

 

  1. Il Canale di Beagle: Ushuaia e dintorni

Situata sul bordo meridionale della Isla Grande de Tierra del Fuego, Ushuaia è circondata da montagne che, al nostro arrivo, sono abbondantemente spruzzate di neve. Tira un vento freddo e umido, piove e non fa mai notte. Non c’è granché da vedere, oltre ai piccoli musei che raccontano delle vicende della città e della Terra del Fuoco, consentendo di occupare proficuamente, al riparo delle intemperie, il tempo interstiziale tra le visite più impegnative. La fauna, i costumi delle popolazioni autoctone, le esplorazioni, la navigazione, funestata da innumerevoli naufragi, vi sono ben presentati. Il resto del tempo lo passiamo passeggiando lungo le strade a scacchiera su cui si affacciano umili casette a un piano, per lo più in legno e lamiera ondulata, alternate a vecchi villini signorili con magnifici giardinetti e orti, e a costruzioni più moderne e negozi. È a tavola che si passa molto del tempo gradevole in città: la centolla è un grosso granchio che adottiamo senza riserve per le nostre cene, in ragione del suo sapore delicato e del basso tenore in colesterolo. Il Malbec e i suoi più valorosi epigoni sono sempre disponibili e questo è un fattore a favore, così, di tutto. La prima sera, abbiamo la fortuna di scegliere un ristorante con vista sul porto e sbirciamo con un po’ d’invidia alcune navi alla fonda, illuminate a festoni. Per la notte, non ci informiamo sugli orari di apertura del Casino, nel quale incontrare annoiati passeggeri delle navi da crociera ancorate nel porto.

Per raggiungere la estancia Halberton, siamo partiti da Ushuaia di buon mattino su un confortevole catamarano, installati in posizione panoramica sotto coperta a prua, circondati da accaniti succhiatori di mate e da irrequieti membri di una troupe cinematografica francese. Navighiamo nel Canale di Beagle tra le verdi coste boscose dell’isola cilena di Navarino a sud e della Isla Grande a nord, con le Ande coperte di neve che quasi arrivano al mare livido, sotto il cielo livido. Verso occidente si eleva la cordigliera Darwin, a oriente il canale si apre verso l’Oceano Atlantico. Incrociano per tutto il tempo innumerevoli uccelli, soprattutto cormorani; annusiamo, ammiriamo, fotografiamo comunità di leoni marini, cormorani reali e pinguini magellanici e verso mezzogiorno approdiamo al porticciolo di Halberton, a una quarantina di miglia da Ushuaia.

Rimaniamo in una ventina, c’è anche una coppia d’italiani, in un giardino fiorito, pieno di coloratissimi lupini, ginestre e altre piante egualmente familiari, in un ambiente però decisamente estraneo, australe. Il profumo delicato dei caprifogli fioriti quasi ci stordisce. Siamo presi in carico da una bella figliola di ascendenze irlandesi, a indovinare dalla fulva chioma, che ci racconta la storia della famiglia Bridges-Reynolds in breve. Pendiamo dalle sue carnose labbra vermiglie, integrando il suo quadro un po’ sbrigativo con ricordi dal libro “Ultimo confine del mondo”[1], scritto da Lucas Bridges, figlio del capostipite, il reverendo anglicano inglese Thomas, arrivato a Ushuaia nel 1871 con moglie e figlia neonata. Dopo una quindicina di anni dedicati con risultati deludenti all’evangelizzazione e alla promozione sociale degli aborigeni, Thomas ottiene in concessione un’area di oltre 20.000 ettari a est della città, sul Canale di Beagles. Nel corso dei decenni, la famiglia disbosca, dissoda terreni, introduce l’allevamento bovino e quello ovino, costruisce, apre strade, produce ed esporta carni, lana e legname, prosegue la sua opera di emancipazione dei nativi e diviene un riferimento importante per naviganti ed esploratori. Oggi, le attività dell’estancia sono limitate all’allevamento bovino e al turismo, a seguito degli effetti combinati del terribile inverno del 1996, che ridusse a un quinto la consistenza delle pecore, e della crisi internazionale del mercato della lana. Gli indigeni (alakaluf, yaghan e ona) sono scomparsi dalla Isla Grande, travolti dalla civiltà, massacrati dagli allevatori, dai cercatori d’oro, dalle epidemie di morbillo e dall’alcol.

Il programma prevede la visita alle strutture e al Museo Acatushún de Aves y Mamíferos Marinos Australes. Nei fabbricati rurali è custodito di tutto, i pezzi più notevoli comprendono: le attrezzature di officina e carpenteria, un trattore e una gloriosa jeep Willis apparentemente in buone condizioni, che suscita le attenzioni del nostro connazionale, la baleniera Esperanza costruita da Despard, il maschio primogenito dalle mani d’oro di Thomas, e custodita in una rimessa in cui sono inopinatamente tumulati due condor imbalsamati, una lavatrice preistorica, attrezzature fuori uso per la tosatura delle pecore, residue balle di lana sucida, dal caratteristico odore. Osserviamo che, con qualche sforzo, l’insieme trascurato e in disuso potrebbe perdere un poco dell’aspetto malinconico e assumere quello più nobile ed evocativo di un museo rurale. Lasciamo il vecchiume al prossimo gruppo di visitatori e ci dirigiamo verso il ristorante, con vista sulla baia: ci spetta una minestra di riso, lenticchie e manzo, calda e appetitosa, consumata la quale, satolli, siamo pronti per la visita al pezzo forte della estancia: il Museo Acatushún. Anche qui, solo ragazze, simpatiche, dinamiche, preparate e professionali. Siamo divisi in gruppi, secondo la lingua (inglese e brasiliano oltre a spagnolo), e la nostra guida, alta, longilinea, dolicocefala, bionda, con un che di slavo, sguardo avvolgente, ci conduce al laboratorio poco distante dal museo.

Tutto inizia qui, con la separazione delle ossa dal resto dei corpi di animali trovati morti sulle spiagge della regione o catturati accidentalmente dai pescatori. Intorno alla casupola sono disposte in bell’ordine le spoglie di alcuni cetacei, tra i quali quella di una giovane balena di recente acquisizione. Alcuni coperti da teli impermeabili, altri immersi in acqua, sono sottoposti a lenta decomposizione fino a quando le ossa possono essere separate, ripulite e sbiancate, all’interno del laboratorio. In seguito, passano all’ossario, nel retro del museo, dove sono numerate, classificate e conservate. Quelle più meritevoli d’interesse possono proseguire per la sala dell’esposizione. Durante oltre trenta anni, circa 2.200 scheletri di mammiferi e di 2.000 uccelli marini hanno subito questa sorte.

Spettri, scheletri

dal passato, dal mare.

Senza rumore.

Alcuni di noi preferiscono non entrare nel laboratorio, respinti dal lezzo, e si dispongono ad aspettare nella brezza marina, fresca e profumata. La guida, che ci ha già fornito sommarie, ma esaurienti informazioni su storia, obbiettivi e attività del museo, prosegue nella sua opera divulgatrice con una chiara impostazione didattica (si qualificherà come insegnante di biologia) e abbonda nei dettagli del processo produttivo. Incontriamo nel laboratorio-ossario, sorridente e composta, l’anziana biologa Natalie Goodall, membro della famiglia e iniziatrice del museo, che non si sottrae all’attività fotografica del gruppo, timida dapprima, poi decisamente intensa. Sulle tracce degli scheletri, ci dirigiamo verso la sala dell’esposizione. Finora, la guida ha saggiato la nostra preparazione specifica, il nostro interesse e la nostra reattività con domande relativamente facili, ma che esigono una certa attenzione. Speriamo di essere pronti per entrare nella sala principale – ci eravamo aggirati in questa sala in attesa della guida – curiosando, da semplici visitatori, privi delle conoscenze di base indispensabili per apprezzarne appieno l’importanza. Ora, guardiamo le immagini e i reperti di oltre venti specie di delfini e di altri piccoli cetacei, di foche e leoni marini e di alcuni uccelli marini qui esposti, con l’occhio e la mente resi sensibili e consapevoli dall’intenso training ricevuto. Le curiosità biologiche continuano a catturare la nostra attenzione, ma le domande si fanno più stringenti, siamo chiamati a mettere in rapporto cause ed effetti, a trarre conseguenze, a ragionare sui meccanismi meravigliosi di adattamento per la sopravvivenza delle specie. Il gruppo si compatta, quasi sulla difensiva. Nella mente di alcuni di noi si risvegliano echi lontani: ma, Darwin non è passato di qui nel lontano 1832 prima di elaborare la teoria sull’evoluzione della specie? Alcuni si assentano temporaneamente (solo una sigaretta, non resisto…) per sfuggire allo stress; i più, adottato lo sfuggente sguardo scolastico, restano sulla breccia. Così, a un certo momento, sollecitati dalla ormai tirannica guida, ci ritroviamo a passarci di mano un osso di cetaceo e a confermarne impacciati la relativa leggerezza. Ci rifacciamo con suggerimenti fantasiosi su origine e/o cause della deformazione di un’interessante collezione di ossa barocche al centro della sala. Al momento del commiato, una collega del gruppo desidera esprimere alla guida il suo apprezzamento per la sua performance: “Però, per essere un’insegnante, sa proprio molte cose.” La guida ringrazia, ci augura di tornare e ammette, criptica, che “spesso dai visitatori c’è da imparare”. Ci tratteniamo ancora un poco nel museo con la guida lusofona con la quale conversiamo, prendendo spunto dal maestoso cranio d’ippopotamo africano esposto su uno scaffale. Presenza non peregrina, se si considera la lontana (50-60 milioni di anni!) ipotizzata ascendenza comune della specie con i cetacei.

Lanciamo un ultimo sguardo agli scheletri e alle numerose ossa di balena calcinate disposte in ranghi ordinati nei paraggi del museo e saliamo sul bus che ci riporterà a Ushuaia. Del paesaggio che scorre veloce fuori del finestrino, ci colpiscono i frequenti gruppi di alberi macilenti o morti lungo i compluvi. Ce ne spiegheremo la ragione l’indomani, visitando il Parco Nazionale della Terra del Fuoco con la simpatica coppia d’italiani.

Tra piogge e schiarite, visitiamo il Parco, che si sviluppa lungo il Canale, non lontano da Ushuaia ed è organizzato con intenti didattici e informativi. Così, apprendiamo che nel 1946, per iniziativa del Ministero della Marina, venticinque coppie di castori canadesi furono liberate nell’Isla Grande, al fine di stimolare l’industria della pellicceria nazionale. Un disastro, perché la pelliccia si è rivelata di qualità inadeguata (non fa abbastanza freddo!), i castori si sono moltiplicati a dismisura in un ambiente senza predatori e con abbondanza di cibo, e le dighe da essi costruite hanno condotto alla morte gli alberi di specie incapaci di sopravvivere in terreni allagati (è il lenga a pagare il tributo più elevato).

La mattina della partenza, la visita del penitenziario, che ospita il Museo Marittimo e quella al Paseo de artesanos, al porto, dove si possono trovare “simpatici e delicati ricordi della città più australe del mondo”, non ci mettono allegria. Avremmo dovuto fare un salto al cimitero, ma non ce l’abbiamo fatta.

  1. L’oasi in città, a El Calafate

In Italia, eravamo stati tentati di mettere il nome di questa cittadina in rapporto con la pratica antica d’impermeabilizzazione degli scafi. Sul posto, apprendiamo della leggenda secondo la quale Fernando Magellano utilizzò la fibra della pianta che si chiamò calafate appunto, per calafatare le navi della sua flotta alla fonda nella baia di San Julian, nel 1520. Con un così nobile padrino di battesimo, questa pianta era destinata a divenire il simbolo non solo della cittadina, ma dell’intera Patagonia. E a garantire il ritorno in Patagonia a chi ne avesse assaggiato i frutti. Visitando alcuni dei numerosi negozi per turisti sull’Avenida del Libertador, ci siamo trovati dinanzi a pareti tappezzate da contenitori di marmellate, gelatine e liquore di colore bluastro, confezionati con i piccoli frutti di questo arbusto. Ne abbiamo portati via alcuni: confidiamo nella persistenza delle proprietà.

Quando abbiamo deciso di visitare la Reserva Natural Municipal Laguna Nimez, trentacinque ettari di duna sabbiosa e di stagni a pochi minuti dalla cittadina, sapevamo che avremmo fatto conoscenza con questi arbusti sempreverdi, che formano qui abbondanti masse spinose, basse e fitte, a contrasto con il timido giallo dei fiori del senecio. Abbiamo il sole e il vento alle spalle quando iniziamo la passeggiata sul circuito, nel tardo pomeriggio. Davanti a noi, un vellutato manto grigio-verdastro, piumoso, fluttuante, su cui spiccano strisce pallide e violacee di poa e di festuche e grandi chiazze bianche di margherite. Sul piombo dell’acqua, già si distinguono familiari sagome rosa e anatre e folaghe; cigni, non se ne vedono. In alto, incrociano gabbiani e altri uccelli marini. Camminando sulla passerella, due beccaccini si levano zigzagando e si rimettono non lontano, dopo un volo a ferro di cavallo. Soffocati dal vento, ci arrivano i richiami rauchi e aspri delle gallinelle. Due di loro s’inseguono in una breve corsa sull’acqua, poi si ritirano tra i giunchi, ciangottando. Ci manteniamo rigorosamente sul sentiero, non lontano ci sono sempre un gheppio o due che scherzano col vento, al confine dell’acqua. Ne vedremo uno, molto dignitoso e attento su un palo, le piume increspate.

Falchi immobili

sospesi sul padule,

cerchi nell’acqua.

Rondini poche, ma molto attive, s’incrociano basse. Ci fermiamo di buon grado qua e là davanti ai volenterosi pannelli didascalici. In fondo, un rialzo divide la laguna dal lago: da qui si dominano gran parte del territorio della Riserva e uno scorcio del lago, altri uccelli sulla riva e sulle piccole onde. Lontane, le Ande innevate. Oltre i giunchi della riva, nella Laguna Nimez, vicinissima, mestoloni e codoni lasciano scie persistenti. Forse si affilano su questo spalto le anatre che trafficano tra le piscine e il lago. In primavera, all’epoca del passo, verso il crepuscolo, deve essere emozionante sostare in quest’angolo, soli. Oggi, gustiamo il tramonto che si prepara sotto un cielo ingombro di strati di nubi di peltro; tra poco le anatre cominciano a chiamarsi per la sortita notturna.

Mentre facciamo una puntata alla Laguna Segundaria, dove anatre tuffatrici s’immergono a turno, sentiamo un lamento di pavoncelle e le vediamo sopra di noi lente, controvento. Sempre in punta di piedi, risaliamo l’istmo tra le due lagune, dove un cavallo strappa ciuffi d’erba, protervo, e una famigliola di oche pascola tranquilla, ignorandoci. Oltre la capannina dell’ingresso all’oasi e la brutta recinzione, le propaggini del paesone cresciuto in fretta. Abbiamo goduto un paio d’ore di solitudine, ma ci è mancato il greve odore dolciastro della palude, forse il vento?

Attraverso il reticolo di strade, già silenziose e sempre anonime, ci portiamo al ristorante, per finire la giornata in bellezza: chiporro, bife de chorizo e Malbec d’ordinanza.

  1. Al ghiacciaio Perito Moreno

Il catamarano è pieno di turisti, anzi ne brulica. Si sente parlare brasiliano, oltre che spagnolo. All’interno c’è un lieve odore d’indumenti umidi, ma non ce ne curiamo: fuori, un venticello gelido ci scoraggia. Dall’imbarcadero al ghiacciaio Perito Moreno il viaggio dura una ventina di minuti. Una voce illustra caratteristiche, primati e meraviglie del lago e soprattutto del ghiacciaio, in spagnolo e in inglese. Riassumendo, ci ricorda che siamo sul lago Argentino, all’interno del Parco Nazionale Los Glaciares: stiamo navigando sul Brazo Rico, che prosegue a sinistra; in fondo, a destra, si apre il Canal de los Témpanos. Insieme, i due delimitano la Peninsula Magallanes. Il ghiacciaio è una delle più importanti attrazioni turistiche della Patagonia argentina. Aumentando di circa due metri al giorno, finisce per unirsi alla Peninsula formando così una diga naturale e creando un dislivello che può superare i trenta metri. L’enorme pressione che si produce finisce per rompere periodicamente la diga facendo crollare enormi blocchi di ghiaccio con grande fragore e dando luogo a un meraviglioso spettacolo. Infine, la voce ci informa che un team di fotografi professionisti è pronto a ritrarre i naviganti e che le foto saranno disponibili alla fine del viaggio, senza impegno… Per alcuni, è questa la notizia più interessante, le altre informazioni le hanno sentite ripetere varie volte o sono un po’ complicate da capire, ad esempio la storia della diga che si rompe. Ciò che importa di più è riportare evidenza della propria partecipazione all’impresa nautica, magari avendo visto precipitare qualche pezzo di ghiaccio, con rumore di tuono e spruzzi d’acqua. Abbiamo notato una passione ardente, quanto inspiegabile, per il ghiaccio che cade, anzi che potrebbe cadere: c’è gente capace di sfidare le intemperie e rinunciare ad altre imprese per assistere a questo spettacolo e, ben inteso, fotografarlo. D’altronde, abbiamo incontrato ovunque masse di turisti con le labbra arrotondate dallo stupore al cospetto di masse di acqua precipitanti.

Dopo poco siamo quasi tutti all’esterno, dove la gelida brezza dal ghiacciaio ci fa versare più di una lacrima. Lo spettacolo è degno di essere immortalato e il capitano agevola le operazioni incrociando davanti al fronte gelido, cosicché nessuno è privato dell’opportunità di ritrarre e farsi ritrarre col ghiacciaio sullo sfondo. E comincia la ridda dei fotografi dilettanti: A ritrae B che a sua volta ritrae A, C si offre di ritrarre A e B, ma a sua volta si astiene dal farsi ritrarre da loro perché ha già triangolato con altri turisti-lettera. I professionisti si fanno desiderare, ma poi, avvicinandosi il fronte del ghiacciaio, appaiono in coperta con le attrezzature pronte all’uso e incitano gli aspiranti modelli a farsi avanti. Capitiamo vicino alla scaletta presso la quale si è appostato un professionista. Il posto ben si presta alla bisogna: sulla piccola piattaforma d’angolo, persone dei vari sessi, coppie matrimoniali di classi etarie diverse, famigliole e rappresentanti delle rimanenti categorie sono messi in posa e ripetutamente ritratti. Alcuni di essi, emozionati, dimenticano di sorridere. I più fortunati beneficiano di impetuosi refoli di vento che, scompigliando capigliature e sciarpe, aggiungono un tocco romantico alle immagini. Abbiamo capito che l’artista si propone di creare un effetto ottico ardito facendo risultare la persona o il gruppo in rapporto intimo con il ghiacciaio, nonostante i duecento metri circa di distanza (una sorta di trompe-l’oeil per chi ammirerà le foto). L’ingorgo sulla scaletta si scioglie a fatica perché ci sono ritardatari e quelli che desiderano un servizio particolare o un supplemento. I professionisti continuano l’opera meritoria, poi si ritirano.

Il fronte del ghiacciaio assume forme bizzarre, misteriose, man mano che il battello si sposta. La superficie mostra crepe e crepacci blu di ogni tonalità. Le colonne di ghiaccio assumono forme fantastiche, che cambiano man mano che ci spostiamo. Ogni tanto, una colonna si stacca dal fronte e crolla rumorosamente in acqua sollevando una grande onda. Si distinguono figurine di escursionisti che si avvicinano al ghiacciaio, altre più nitide già camminano in fila sulla sua superficie, unite da un filo sottile.

Non vola un’ala,

nell’algido silenzio

crolla una guglia.

Quando il natante volge la prua per il ritorno, solo in pochi si trattengono sulla tolda: siamo più che soddisfatti. Sbarcati, proseguiamo in auto per completare la visita da terra. Dal parcheggio, una navetta ci porta sull’ampio spiazzo in cima alla Peninsula. Qui c’è il solito affollamento di turisti in cerca di souvenir, cibo, bevande, riparo, riposo e mezzi di trasporto per tornare al parcheggio. Un sistema articolato di passerelle metalliche, lungo le quali sono disseminati mirador in posizioni strategiche, permette di ammirare il ghiacciaio da molte prospettive e distanze. Ce n’è per tutte le capacità fisiche. Incontriamo turisti di ogni nazionalità, età e condizione fisica che arrancano sulle passerelle, incuranti del vento gelido che non ha smesso di soffiare dalla mattina. I più arditi si sono spinti ai mirador bassi sperando nel crollo, macchina fotografica imbracciata e occhio vigile. Una piattaforma attrezzata con un mirador, a una decina di metri sotto lo spiazzo, rappresenta il punto di arrivo per la maggior parte di noi. Da qui si ha la vista più completa: ai lati del ghiacciaio, che appare come un grande fiume che si perde lontano, si ergono imponenti montagne innevate. È qui che si riposa al parziale riparo del vento che infierisce, si mangia e si riprende la via del ritorno. Un team di fotografi professionisti è attivo anche qui. Uno di essi, sorprendentemente sbracciato, ostenta un’inspiegabile resistenza alla pioggia gelata e svolge la sua opera pronunciando frasi di circostanza, incitazioni, rassicurazioni e raccomandazioni spiritose.

Abbiamo lasciato le provviste in macchina e scendiamo al parcheggio sotto un’acquerugiola lenta, il lago sotto, sulla sinistra. Poi il tempo migliora e consumiamo un dietetico pranzetto a base di frutta e fette biscottate su un tavolino bagnato, prima di riprendere la via del ritorno. Al ghiacciaio ci si può avvicinare anche partendo da Bahia Tranquila, navigando quasi tra gli iceberg, fino al Canal de los Témpanos, ma i battelli per queste crociere partono di mattina e ormai è tardi, un’altra volta, dunque. Qualche tempo dopo, il 12 febbraio, nostro figlio Federico ci ha segnalato il crollo di parte del ghiacciaio, che peccato averlo mancato!

[et_pb_text admin_label=”Parte seconda 4″ _builder_version=”4.4.1″ text_font=”Noto Sans||||||||” text_font_size=”17px” text_line_height=”1.9em” link_font=”||||||||” ul_font=”||||||||” ol_font=”||||||||” quote_font=”||||||||” header_font=”||||||||” header_text_align=”center” header_2_font=”Noto Serif|700|||||||” header_2_font_size=”44px” header_2_line_height=”1.5em” header_3_font=”||||||||” text_orientation=”