Ad Adi Quala, per la festa di Maryam

Diario di viaggio di Caterina

Era un bisogno il mio, di viaggiare in Eritrea. Per provare comprenderne un pò di più la sua tormentata storia, oltre i libri, le letture, la documentazione e i racconti, per incontrare il suo popolo, gli anziani con ancora il ricordo degli italiani e i giovani che hanno gli stessi sogni di tutti i giovani del Mondo. Ho desiderato viaggiare in Eritrea per poter unire i pezzi di un percorso antico che dall’altra parte del mare, passando per Adulis e attraverso passi di montagna, arrivava fino ad Axum. Volevo percorrere la strada che scende a Massaua, camminare lungo le sue vie, sentire la pelle, seccata per il clima dell’altopiano, sudare per l’umidità. E viaggiare nella terra dove ha messo radici, come le mettono le erbe matte, la presuntuosa espansione coloniale dell’Italia. Ho una passione che mi farà tornare in Eritrea. Gli Afar della Dancalia.

Dopo il centro di Adi Quala, la strada prosegue per un poco in direzione del tramonto e poi arriva alla frontiera, puntando diritta verso Sud. Superato il confine, da poco aperto dopo vent’anni, su strade di montagna, si arriva ad Adua.

Chi viaggia in Eritrea non capita per caso ad Adi Quala. Qui, bisogna decidere di venirci.

Per salire a Daro Ghunat, a piedi, lungo una pista di terra rossa in mezzo a campi di sorgo, fino al monumento dedicato ai caduti della disfatta del primo giorno di Marzo del 1896. L’ossario raccoglie e protegge i resti di tremila seicento quarantatre tra i più di diecimila morti della battaglia di Adua. Il tricolore, teso dal vento, sembra essere lì per non farli sentire soli. Su uno dei lati dell’obelisco di granito, bianco che acceca, lanciato in un cielo sempre azzurro scuro e terso, c’è scritto: “Il vostro esempio segnò alla nuova Italia le sue mete imperiali”. Questo è un posto di silenzio e quiete immensi. Di pensieri e riflessioni, che dalla testa escono e si liberano nella bellezza severa dello spazio.

Oppure ad Adi Quala si deve capitare il 30 di Novembre, per la festa di Maryam.

Seduta fuori dal cancello dell’Hotel Tourist, resto a guardare chi passa in strada. Fino a che il sole si mescola alla terra, lontano, all’orizzonte. Fino a quando scende la notte. Tutti hanno comperato fasci di erbe fresche, lunghe e verdi, mazzi di foglie di papiro o foglie di palma. Li portano in testa, caricati sulle biciclette o sugli asini. Sui tetti dei minibus collettivi, insieme a capre e galline legate per le zampe.

Durante la notte iniziano i canti, accompagnati dal ritmo lento dei tamburi. Se non ci sono cani che abbaiano, e si ascolta bene, si sente anche il suono dei tappi dei sistri che cadono uno sull’altro. Gli abuna hanno voci celestiali e movimenti gentili.

La processione verso la chiesa, che ha la forma di un tukul, ha inizio durante la notte e, ininterrotta, continua per tutta la giornata. Le donne entrano a destra, gli uomini a sinistra. Sono tutti scalzi e vestiti di bianco. Gli uomini hanno sull’orecchio un ciuffo di erba verde che profuma di lime e basilico. Il pavimento intorno alla chiesa è coperto di rami e foglie di papiro e erbe. Chiunque entri ne porta in abbondanza per offrirle. Davanti ai due gradini che conducono alla porta, c’è un tavolino con mazzi di candele color arancio, a due a due sullo stesso stoppino di cotone, lunghe e sottili come un dito mignolo.

Gli uomini fanno capannelli e se la raccontano all’ombra. Ne ho visto uno restare inginocchiato per tutto il tempo con la fronte appoggiata su un libro. Le donne salgono verso la chiesa e pregano, in piedi o in ginocchio. Baciano il muro, baciano il pavimento. I loro i figli giocano a nascondersi nei lunghi scialli di cotone che coprono i capelli, fino ai piedi. I neonati dormono tranquilli, caricati sulle schiene. Sui muri interni è dipinta la battaglia di Adua. Gesù Cristo si confonde con i soldati. Chi è lì dal cuore della notte, stanco morto, fatica a tenere gli occhi aperti. Qualcuno dorme, rannicchiato dentro lo shamma. I preti continuano a cantare, appoggiati ai bastoni da cerimonia, con picchi di vocalizzi seguiti da silenzi di riposo. Un amplificatore da fiera di paese, è così potente che diffonde anche una raschiata di gola e una soffiata di naso.

Nel cortile sette donne sedute sulla terra affettano, tutte alla stessa velocità, una montagna di cipolle rosse. Per la festa cucinano il pranzo a tutti i pellegrini. Due pentoloni da comunità, bollono e fumano sul fuoco vivace di legna.

Questa festa è incontro di umanità, di donne e uomini che camminano giornate intere per arrivare e pregare, di preti che benedicono i fedeli prostrati ai loro piedi, di venditori di ombrelli di velluto colorati e ricamati con fili d’oro, di venditori di croci di ottone e poster plastificati dell’immagine di Maria. Mi hanno detto che resistono, anche se piove.

Sono rimasta per ore ad osservare le azioni e i gesti universali della fede. Che nessuna dittatura ha potuto cancellare o far dimenticare.

Anche chi non crede, qui, sente i brividi.

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