Sulla via del sale della Regina di Saba - dall'altopiano al mare

Gennaio 2012 - Diario di viaggio di Vincenzo Meleca
8 giorni

L’alba è fredda oggi ad Asmara, anche se siamo ai primi di aprile.

Ho aperto la finestra della mia camera per dare uno sguardo alla città. Dai tetti e dai cortili di molte case e casupole si alzano sottili spirali di fumo e nell’aria si diffonde il profumo della farina e del caffè con cui si stanno preparando le colazioni. I galli, tranne un paio, hanno smesso di cantare e sono tornati a dormire: chissà perché questi pennuti asmarini amano dare la sveglia alle quattro del mattino, nel buio ancora profondo, anziché aspettare come fanno tutti i loro colleghi il primo chiarore?

Controllo velocemente i bagagli, tutto a posto, sono pronto, anzi prontissimo per questo trekking che mi porterà indietro nel tempo.

È da tre mesi che con Gian Marco Russo e Valeria Isacchini ci stiamo preparando a ripercorrere una delle più antiche vie del sale africane, quella che dal porto di Adulis, nella Dancalia Eritrea, risaliva le pendici dell’acrocoro etiopico e, passando dal Cohaito, arrivava ad Axum. Fino al VII secolo questa era stata una vera e propria strada commerciale che collegava l’Egitto greco-romano alle Indie.

Non siamo riusciti a trovare carte dettagliate e recenti della zona. Quelle russe risalgono alla metà degli anno ’80, potrebbero anche andare bene come cartografia, ma tutte le indicazioni sono in caratteri cirillici, per cui preferiamo affidarci alle carte dell’IGM che risalgono allla fine dell’’800, ma sono state aggiornate nel 1936.

Dopo qualche discussione abbiamo abbandonato l’idea di partire dalla costa, preferendo, per nostra comodità (per la verità, soprattutto quella di Gian Marco…), scendere dagli oltre 2600 metri del Cohaito fino al livello del mare: d’altronde, tranne Valeria, non siamo camminatori appassionati e, come dico spesso, non siamo nati per soffrire…

Gian Marco, che ha agganci in Eritrea, si è sobbarcato il peso  maggiore dell’organizzazione, procurandosi, chissà  come,  quattro  cassette  militari  del  Regio  Esercito  Italiano  con  tutta  la necessaria attrezzatura da cucina e trovando guida, cammelli e cammellieri, mentre a me è stato dato il compito di stimare e procurare le cibarie, nonché carte geografiche, bussola e GPS. Valeria avrà invece l’onere di collegare quanto vedremo con quanto descritto sulla guida del Touring e sul libro “Viaggio nell’Eritrea” di Max Schoeller.

Con il sole già alto e la temperatura decisamente gradevole saliamo a bordo di due fuoristrada Toyota che ci porteranno al punto di partenza: siamo in sette, con Gian Marco, Valeria ed il sottoscritto ci sono anche il nipote e due figli di Gian Marco, rispettivamente Manolo, di 19 anni, Gianmarco, di 11 e Simone di 9, non Elsa, impiegata eritrea nell’agenzia di Gian Marco.

Scendiamo per la tortuosa strada che va da Asmara a Massaua, costruita oltre un secolo fa. A Nefasìt giriamo a destra e imbocchiamo quella che porta a sud, attraversando Dekamerè, che sarebbe dovuta diventare la Torino dell’Africa orientale Italiana, con le sue fabbriche ed officine e Seganeiti, con i suoi immensi sicomori il cui re è quello di Mai Serao. Risaliamo nuovamente fino a superare ancora i 2000 metri di quota e facciamo una breve sosta per vedere da vicino le quattro colonne dell’antica chiesa di Mariam Wakiro, uniche vestigia rimaste dell’antica città axumita di Coloè, che raggiunse il massimo splendore tra il VI ed il II secolo a.C.. Qui l’altopiano è dominato dal massiccio dell’Amba Soira, che, con i suoi 3018 metri è la cima più alta Dell’Eritrea. Arriviamo fino a Senafè soltanto per trovare un ristorantino dove pranzare: injera, zighinì e capretto al forno saranno l’ultimo pasto consumato seduti con le gambe sotto il tavolo per i prossimi otto o dieci giorni… Alle due e mezzo siamo a Safra, proprio sul bordo di un costone dove sbuca il sentiero che dovremo percorrere.

Lì ci aspettano la guida, Ibrahim, il capocarovana, un altro Ibrahim e 4 cammellieri, Adem, ancora un altro Ibrahim, Mohammed e Saleh, con otto cammelli Chiarimento immediato così non ci ritorno più sopra: questi in effetti sono dromedari, hanno una gobba sola, ma quasi tutto il mondo li chiama cammelli ed io mi adeguo…

Lungo e complicato è il caricamento: oltre a tende, materassini e sacchi a pelo le nostre bestiole dovranno sobbarcarsi il peso di tutta l’attrezzatura della cucina da campo, delle cibarie e dei venti bidoni da venti litri ciascuno con l’acqua potabile (ho calcolato due litri d’acqua a testa al giorno, oltre a quella necessaria per cucinare). L’acqua per i cammelli e per lavarsi (dicono però che di sporcizia non è mai morto nessuno…) dovremmo trovarla strada facendo.

Finalmente alle quattro, dopo aver salutato i nostri due autisti, Solomon e Gebrehiwet, la nostra carovana inizia a muoversi.

Siamo tutti abbigliati in modo consono, soprattutto Valeria e i due ragazzi, la prima ex giovane esploratrice i secondi da veri boy scout. C’è però qualcosa che non quadra, anzi “qualcuno”. Elsa sta calzando un paio di mocassini da città!!!!

Alle osservazioni mie e di Gian Marco la ragazza replica che nessuno le aveva spiegato bene di che tipo di camminata avremmo fatto, per cui pensava soltanto di indossare calzature comode…

Il sentiero scende dolcemente seguendo l’andamento del costone roccioso, attraversando una zona in cui abita un’etnia in via di estinzione, i Sahò. Originariamente nomadi, si stima siano non più di un centinaio di migliaia di anime, in buona parte stanziati nel sud dell’Eritrea ed il resto in Etiopia. Vivono di pastorizia in condizioni davvero estreme, se valutate con i metri attuali. Nelle loro povere capanne circolari dal tetto a cono non hanno nè luce elettrica nè acqua, che sono costretti a raccogliere nei pozzi scavati nei greti dei torrenti, distanti spesso molti chilometri.

Le ombre della sera stanno calando velocemente, il sentiero si allarga un po’, creando uno spiazzo ideale per montare il campo. Non siamo affatto stanchi, abbiamo camminato solo un paio d’ore, per di più in discesa e su terra battuta (solo le ultime decine di metri sul greto di un torrente). Solo Elsa appare un po’ affaticata, visto che camminava saltellando in punta di piedi con le sue scarpette di capretto… Rizziamo le tende alla luce delle torce, prepariamo una cena molto semplice (pane e provolone, che mangeremo anche nei giorni seguenti, vista la dimensione…), rinviando a tempi migliori pasti più elaborati.

Prendo il punto con il fido Garmin 12: mi indica 14°54.043’N – 039°23.788’E, Q 2172. Controllo sulla carta e sulle curve di livello: incredibile, al punto GPS corrisponde proprio una radura che fiancheggia un torrente, il Sillirassu.

Nei due giorni seguenti continuiamo a scendere camminando sul greto dei torrenti Sillirassu, Garbanabà ed infine dell’Haddas. Il panorama si fa via via più brullo, arbusti ed alberelli lasciano il posto via via alle acacie spinose ed a vari tipi di euforbie. Ogni tanto i torrenti passano attraverso strette gole che ricordano i canyons dei film western. Tranne qualche falco che volteggia sopra le nostre teste, alcuni cammelli allo stato semi-brado ed un paio di coloratissimi martin pescatore (ma dove andranno mai a pescare?) non abbiamo incontrato altri animali.

Finora la camminata non è stata affatto difficile, tranne qualche passaggio nelle gole. L’unica a soffrire è stata Elsa che, dopo aver distrutto le sue belle scarpine, si sta distruggendo i bei piedini camminando con un paio di scarpe da ginnastica.

Le serate sono state davvero piacevoli, con il fuoco scoppiettante al centro del campo, le cene decisamente ricche ed  abbondanti (quanto sono buone le buste di risotti pronti quando si ha fame!!!), ma il problema è la notte, quando i cammelli impastoiati non trovano di meglio che gironzolare rumorosamente tra le nostre tende masticando i rami delle acacie dove giocoforza dobbiamo rizzarle (fosse solo qui il problema, sarebbe superabile, ma i cari animaletti dopo aver ingurgitato i rami, seguendo l’intuizione di Einstein “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, si sentono in dovere di depositare l’esito finale della digestione   molto, anzi, troppo vicino proprio alle nostre tende…

L’indomani, di buon mattino, siamo di nuovo in marcia. Il sentiero è adesso una sorta di cengia che segue il profilo della montagna. Il nostro passo è abbastanza veloce, più veloce della carovana di una trentina di cammelli che stanno scendendo avanti a noi carichi di legna. Non riusciamo a capire da dove siano sbucati fuori, non ci pare di aver visto altre piste che si immettevano nella nostra. Mah! Misteri africani… La decina di cammellieri che li guidano non sono Saho, è gente dell’altopiano, ma sono tanto cortesi da far arrestare la loro carovana per consentirci di superarli.

Li salutiamo e li ringraziamo a modo nostro, regalandogli un paio di bidoni d’acqua. Dopo neppure mezz’ora, vediamo spuntare da una delle mille curve di questo sentiero, ad un paio di chilometri più in basso, un’altra carovana che sta salendo molto lentamente. Quando li incrociamo vediamo che è una carovana più piccola, sì e no una ventina di cammelli, stracarichi di sale marino, l’oro bianco di queste parti. Un paio di cammellieri riconoscono la guida, per cui tutti fermi a scambiarsi saluti, informazioni e, immagino io, pettegolezzi!

Appena il tempo di proseguire che è ora di pranzo: panini raffermi, tonno in scatola e acqua… Mentre i due fratelli si arrampicano come capre sulle alture che circondano lo spiazzo dove ci siamo fermati, si siede accanto a me Valeria ed insieme commentiamo gli incontri appena fatti. Qui il tempo davvero si è fermato, anzi, forse è persino tornato indietro. Uomini ed animali salivano e scendevano esattamente come duemila anni fa, senza nessun orpello di tecnologia o modernità. Non ho visto neppure un Kalashnikov, che in altre zone dell’Eritrea e dell’Etiopia spesso è quasi un accessorio d’abbigliamento come il kushuf.

Valeria fa una citazione che vale la pena di ricordare: noi occidentali abbiamo l’orologio, loro hanno il tempo!

Un altro giorno è andato.

Oggì invece è l’alba del quarto.

Come gli altri giorni, la sveglia è scandita dal canto del giovane cammelliere che, come imam del gruppo, chiama alla preghiera i suoi colleghi. Ma stavolta il suono melodioso della sua voce è diverso, reso più forte e potente dalla gola in cui ci siamo accampati. Mi affaccio dalla tenda, fuori è ancora buio, c’è solo il tenue chiarore delle braci che illumina una scena senza tempo, le ombre dei nostri Sahò che si prostrano all’unisono per terra, si rialzano, si prostrano ancora e ancora si rialzano…

La preghiera del mattino è la più sentita, la più corale. Mi chiedo se la loro fede così salda potrà un giorno sostenerli nella missione che l’Islam assegna a tutti i musulmani.

Sono la solita anima inquieta, non mi rassegno a camminare in testa alla carovana, debbo andare avanti, molto più avanti di loro, per poter sentire il silenzio di questi posti dimenticati dagli uomini e, chissà, forse anche un po’ dagli dei.

Ogni  tanto  qualche  grossa  pietra  bislunga  affondata  di  sbieco  nel  terreno  indica  una  tomba abbandonata. Chissà quando, qualcuno è morto da queste parti, qualcuno lo ha sepolto e poi il tempo ne ha cancellato la memoria.

Sono quasi le dieci del mattino quando arrivo ad una biforcazione, dove il greto di un torrente non segnato dalle carte si incunea in quello dell’Haddas. Mi fermo ad aspettare il resto della carovana e mi guardo attorno. Sotto i rami di due acacie mi pare di vedere i resti di una costruzione. GPS in una mano (15°01.398’N-039°23.606’E, Q 1314) e carta IGM nell’altra. Incredibile, quelli sono quanto resta del posto di controllo dei carabinieri eritrei, gli zaptiè! Così descrive la zona la guida del Touring Club (pardon della “Consociazione Turistica Italiana”…) del 1938: “Si passa ai piedi del monte Bertidagà  (m. 1807) a destra e all’acqua di Mahiò (telefono), m. 1300, già importante sosta  di  carovane,  ora  posto  di  zaptiè.  Mulatteriera a  destra  per  Halai,  seguita  dalla  linea telefonica.”

Quindi, settant’anni fa questa era una via di comunicazione talmente importante che non solo vi transitavano molte carovane, ma anche che si era ritenuto opportuno farla sorvegliare dai carabinieri eritrei,  dotandoli persino  di  telefono  (notare  bene,  telefono,  non  telegrafo,  anche  se  la  carta dell’IGM che è comunque di epoca anteriore a quella della guida del TCI, indica solo quest’ultimo mezzo di comunicazione).

Si prosegue. Uno dei nostri cammelli, appena sgravato dal peso dei bidoni d’acqua, si è trovato a dover scarrozzare una gentile donzella, Elsa, che non ce la fa più a camminare, con i piedi ormai tutti piagati.

Ancora solo, in avanscoperta.

Il greto dell’Haddas si restringe, incassato com’è fra due costoni di roccia viva. Un odore nauseabondo mi colpisce le narici. Una carogna senz’altro, ma uomo o animale? Troppo forte per essere di un uomo, infatti è di un povero cammello, precipitato dal costone meridionale. La sua carcassa è gonfia, il muso ha assunto quasi sembianze da dinosauro. Strano che non siano ancora arrivati iene, sciacalli ed avvoltoi a spolparlo.

La serata ci ha riservato una novità gastronomica, almeno per noi italiani (ma anche per la guida Ibrahim che, pur conoscendola, non aveva mai assistito alla preparazione), la tradizionale, antichissima burgutta, il pane da viaggio.

Uno dei cammellieri ha preparato il fuoco, incaricando un paio di suoi colleghi di andare a cercare qualche ciottolo sul greto del torrente. Poi, dopo averne scelto quattro o cinque di dimensioni simili a quelle di una nostra boccia, li ha messi sulle braci ardenti. Ha quindi preparato un impasto di acqua e farina di durra (o dura, una varietà di sorgo) o di teff (o tieff, eragrostis teff), entrambi cereali tipici  del  Corno  d’Africa)  nella  stessa  mezza  tanica  usata  per  abbeverare  i  cammelli (normativa HACCP non del tutto rispettata…).

Con gesti rapidi ha afferrato con una mano uno dei ciottoli (preciso: mano nuda, niente guanti d’amianto…) oramai roventi e con l’altra lo ha avvolto con una parte d’impasto, rigorosamente non lievitato  e  con  pochissimo  sale,  rimettendo  il  tutto  ancora  sulle  braci.  Dopo  aver  ripetuto l’operazione fino ad utilizzare tutto l’impasto, ha dato l’incarico ad uno dei suoi “assistenti” e si è finalmente accoccolato sui talloni per fumarsi in santa pace una sigaretta. L’assistente (soprannominato da noi “il rotolatore”, perché in effetti tutto quello che faceva era di rotolare coscienziosamente queste palle sulle braci e sulla cenere) dopo quello che riteneva il giusto tempo chiama il maestro, e questi, verificata la cottura, sposta con un bastone le burgutte al di fuori del braciere, sulla sabbia circostante.

Osserviamo tutti con curiosità, attendendo le mosse successive.

Conscio  dell’essere al centro  dell’attenzione,  Adem prende  una  burgutta  in  mano,  la  pulisce sommariamente dalla sabbia e dalla cenere di cui è coperta, poi afferra un grosso sasso e comincia a percuoterla, fin il crostone in cui si è trasformata la farina di teff si rompe. Il cammelliere ne prende un pezzo, lo mette in bocca, annuisce ritenendo la cottura perfetta, quindi comincia a finire di romperla distribuendone i vari pezzi a noi.

Metto in bocca il mio, non prima di aver tolto un altro bel po’ di sabbia e cenere. Avete presente il gusto di un coccio di terracotta? Beh, credo che sia molto simile! La burgutta è dura come il coccio, per cui occorre tenerla in bocca per almeno mezz’ora, il tempo giusto perché si ammorbidisca e la si possa masticare (lentamente, molto lentamente…) ed ingoiare. Magari, nel contempo è passata la fame…

Come se non bastasse, la burgutta è anche del tutto sciapa, per cui a parte che non fa neppure venire tanta sete, può essere conservata per giorni e giorni senza timore che ammuffisca. Il giorno successivo ci riserva varie novità.

Di buon mattino Valeria ed io, in avanguardia pedestre come al solito, incontriamo un numeroso branco di amadriadi (Papio hamadryas), un tipo di babbuino dalla folta criniera chiara, quasi bianca, che si trova solo sulle due sponde meridionali del Mar Rosso.

Mentre le madri portano in salvo i cuccioli più piccoli, aggrappati ai loro ventri o sul loro groppone, i giovani scappano per qualche metro, poi ritornano sui loro passi, incuriositi da questi strani loro parenti più grossi, più brutti e senza neppure la pelliccia incorporata.

Solo tre grossi maschi restano fermamente saldi sul greto dell’Haddas. Mi fronteggiano, anzi mi minacciano con urla e grida stridule, uno mi mostra addirittura i denti.

Resto alquanto interdetto, ma per fortuna interviene Ibrahim, che mi fa segno di restare immobile, poi lancia qualche sasso agli animali che, a questo punto, si ritirano dignitosamente senza però smettere di tenerci d’occhio e raggiungono il resto del branco che si è ragguppato sulla sommtà di un roccione poco distante.

Arriva anche il resto della carovana, con i due ragazzini tutti eccitati dall’incontro. Ibrahim chiama Gian Marco e confabulano in tigrino, dopo di che, Gian Marco chiama me e Valeria e ci dice che la nostra guida vorrebbe che non ci allontanassimo troppo, perché da queste parti oltre ai babbuini, che possono attaccare e spesso sono portatori di rabbia, ci sono anche iene e sciacalli.

Obbediamo a malincuore, almeno per oggi.

Percepita  la  nostra delusione, Ibrahim cerca di rimediare chiedendo  se  ci va  di  mangiare un capretto. Dopo varie sere di minestre liofilizzate, gallette e formaggi, la risposta è ovvi, certo che sì! Il  sole  sta  già  calando  ed  abbiamo  già  montato  le  tende  in  località  Foren  (15°07.830’N  – 039°23.018’E, Q 915) in uno dei pochi spiazzi vicini all’Haddas quando uno dei cammellieri ritorna con legata una capra che peserà ad occhio e croce almeno una trentina di chili. Se questo è il capretto, ho idea che sarà meglio trovare una cote ed affilarci i denti…

L’uomo si siede su un masso, avvicina la capra, poi con mano sicura, le infila una sorta di stiletto nella giugulare…

La capra bela sommessamente mentre il sangue e la vita l’abbandonano.

Distolgo  lo  sguardo,  non  i  due  ragazzi  che,  quasi  affascinati,  guardano  l’animale  morire  e commentano “Guarda, l’ha sgozzata!”, “Guarda come le esce il sangue”…

Confesso di non aver affatto gustato la cena, sia perché non sono più abituato a veder morire un animale sia perché la capra è stata cucinata nel modo tradizionale Sahò, parte sulla brace, parte su pietre roventi, tutto però non lavato nè pulito (soprattutto le interiora, che sono state pulite soltanto con un bastoncino e poi cotte e servite come prelibatezze…).

Quanto avanzato della capra è stato poi religiosamente conservato in un pentolone, che per alcuni giorni, ha ballonzolato rumorosamente a ritmo con l’andatura del cammello sul quale era stato caricato, alla faccia della temperatura poco adatta alla conservazione delle carni….

Questa mattina Elsa, senza volere, ne ha combinata una delle sue.

Appena sveglia, è uscita dalla sua tendina nel suo pigiamino rosa e azzurro, si è guardata attorno con un’espressione felice, ha disteso le braccia prima all’infuori e poi in alto, come se stesse facendo un esercizio di stretching…. e la stoffa della blusa si è tesa, lasciando poco spazio all’immaginazione di cosa c’era sotto…

Poco distanti, seduti in circolo per terra a fare colazione, i cammellieri la osservavano con quegli sguardi che gli uomini hanno quando… beh, immaginate voi quando! Ho idea che a questi ragazzi verrà un bel mal di testa!!!!

Si riparte. Stiamo scendendo ancora, l’aria ora è calda e pesante.

Anche i ragazzi, come la giovane eritrea, hanno rinunciato a camminare e si godono la discesa dall’alto delle loro cavalcature.

Dimenticando le raccomandazioni della guida, Valeria allunga il suo passo bersaglieresco e si allontana dalla carovana. Dopo qualche minuto, me la filo all’inglese anch’io, senza però neppure tentare di raggiungerla.

Mi gusto nuovamente la sensazione di essere da solo in un mondo senza tempo. Solo?

Mac! Da un declivio sta scendendo una macchia rossa, è una persona, una donna con un grosso bidone giallo sulla testa. Mi vede anche lei, ma non cambia direzione, per cui dopo pochi minuti ci incontriamo.

È una giovane Saho ed il tipico grosso anello d’oro al naso ne fa anche una donna maritata. Indossa una sorta di sari rosso fuoco con arabeschi neri, sul capo un velo anch’esso rosso fuoco, che lascia scoperto il viso. È davvero molto bella.

Mi osserva senza timore, anzi con curiosità. Non possiamo comunicare, purtroppo, se non a gesti.

Cerco di farle capire che mi piacerebbe farle una fotografia, sulle prime mi fa segno di no, poi ci ripensa e me lo consente: non vedo il sorriso sulle sue labbra, ma lo intuisco dall’espressione degli occhi.

Peccato che non possa stampare la foto e regalargliela, ho idea che da queste parti sarebbe per lei un dono graditissimo.

Proseguiamo affiancati in silenzio per un centinaio di metri, fino ad un pozzo rudimentale scavato sul greto dell’Haddas.

Lì ci sono altre tre donne, una molto anziana che rassomiglia all’immaginaria strega di Biancaneve.

La ragazza in rosso si avvia verso di loro, ma prima di fermarsi a raccogliere l’acqua si volta verso di me, con gesto aggraziato si abbassa un po’ il velo e mi regala un bianchissimo sorriso.

Mi sarò fidanzato senza saperlo?

Il sentiero che percorriamo continua a scendere.

Incontro Valeria accanto ai resti di un cimitero abbandonato. Una ventina di tumuli indicati da rozze lapidi, molte delle quali cadute. Chissà a quale epoca risale, visto i posti, potrebbe risalire ad una ventina d’anni fa come a duemila anni or sono.

Valeria mi racconta di un suo incontro con un gruppo di cicogne nere (Ciconia nigra), incontro davvero fortunato ed inatteso visto che in questa stagione non avrebbero dovuto essere lì, come mi ha poi confermato l’ornitologo del Museo di storia naturale di Milano Giorgio Chiozzi.

Mentre prendiamo qualche foto ci raggiunge la carovana. La guida ci fulmina con lo sguardo, ma non ci dice nulla. Chiedo a Gian Marco se questo posto ha un nome.

Ce l’ha, si chiama Hamhamo (15°14.161’N – 039°24.131’E, Q 457)

Prima di cena, solito intervento chirurgico serale ai piedini di Elsa. Da tre giorni infatti Gian Marco ed io le curiamo le piaghette, disinfettandole e cambiandole le fasciature. Mi pare che la fanciulla, gridolini a parte, non disdegni queste attenzioni…

Medicata l’ammalata, ci dedichiamo alla preparazione del pasto. Questa sera, nientre risotti pronti, ci facciamo una spaghettata!

Superfluo dire che dei due chili e mezzo di Barilla numero 5, conditi con zucchine e melanzane saltate in padella non ne è avanzato neppure un grammo! Anche i cammellieri hanno gradito, presentandosi in fila ordinata per chiedere il bis…

Ci stiamo avviando verso la fine del trekking.

Il panorama è cambiato radicalmente. Niente più montagne incombenti, niente più costoni rocciosi e stretti passaggi. Ora camminiamo in spazi sempre più ampi, come ampio e sabbioso è oramai il letto dell’Haddas.

Anche il tempo è mutato. Oggi ci siamo svegliati spotto un cielo grigio e con una cappa di afa già alle 8 del mattino. Quanto diverso il risveglio dei giorni precedenti, con una azzurro intenso sopra la testa di giorno ed un nero trapuntato di stelle brillantissime la notte!

Dopo giorni e giorni in cui non abbiamo più visto abitazioni scorgiamo finalmente un gruppo di capanne e casupole: è il villaggio di Hadoda (15°16.601’N – 039°29.856’E, Q 274). Un paio di cammellieri vi si fermano per fare rifornimento d’acqua. In effetti, ne abbiamo consumata più del previsto, soprattutto negli ultimi due giorni.

La sera montiamo il campo in un’area pianeggiante, dominata a Nord Est dal Ghedem , la montagna più alta (925 m) della costa massauina.

Mi sento piuttosto stanco, stasera, ho i piedi doloranti a causa  dell’attenzione con cui ho dovuto camminare per gli ultimi cinque o sei chilometri. I miei scarponcelli, infatti hanno deciso di cedere, la suola si è staccata dallo scafo ed ho dovuto legarla più e più volte con un pezzo di spago, via via sempre più corto.

Ma non è solo questo. Sento che il viaggio sta finendo, sta terminando questa bella camminata sugli stessi sentir, sulle stesse pietre su cui hanno camminato da venticinque secoli migliaia di carovane e migliaia di uomini. Tutto sembra rimasto come allora, il tempo qui si è davvero fermato.

Gian Marco, Manolo e Valeria si stanno dando da fare per un’altra cena da favola (penne al tonno e vongole: eh, sì! Avevamo anche le scatolette di vongole…).

Gianmarco e Simone socializzano con i cammelli ed i cammellieri.

Elsa è distesa sulla sabbia, le mani incrociate sotto la nuca, mentre osserva il cielo stellato. Chissà cosa racconterà ad amici e parenti al suo ritorno ad Asmara, lei cittadina doc, che ha confessato di non aver mai camminato se non in Viale delle Palme!!!

È l’ultimo giorno di trekking.

Il cielo è grigio e sin di primo mattino c’è un bel caldo afoso che non lascia presagire nulla di buono per quest’altra dozzina di chilometri che ci separano dalla costa e da Foro, nostro punto d’arrivo. Montagne ed alture sono ormai alle nostre spalle, di fronte si estende una pianura sassosa e sabbiosa dove crescono alcuni stentati cespugli spinosi.

Non c’è senso ad andare avanti alla carovana, quindi mi diletto a percorrerla avanti e indietro, magari prendendo in giro Valeria che è salita anche lei sul cammello. A furia di camminare alla bersagliera, anche i suoi piedini si erano infatti piagati, per cui, sotto le insistenze di Gian Marco, aveva dovuto accettare di montare in groppa. C’è da dire però che, dopo una discussione con il suo cammello (ha vinto lei, ovviamente!), vi si è sistemata sopra come Lawrence d’Arabia, guidandolo come se non avesse fatto altro nella vita e suscitando l’ammirazione dei cammellieri… Ci mancava solo che ad un certo punto cominciasse a lavorare di frustino e ad incitare all’attacco tutta la carovana, urlando “Ad Akaba!!! Ad Akaba!!!!”

A farcela tutta a piedi saremo alla fine solo Gian Marco ed io.

Ad un certo punto vedo che uno dei cammelli di testa ha uno scarto, esce dalla pista per rientrarvi subito dopo, costretto da Adem o Saleh, non ho potuto distinguere chi dei due, visto che sono abbigliati in modo presso identico.

Risalgo la carovana fino al punto dello scarto e, con un po’ di fatica vedo nella sabbia qualcosa che si muove. È un serpentello, sarà lungo sì e no mezzo metro, grosso come un dito mignolo, ha una livrea grigio sabbia, una sottile linea scura corre lungo tutto il suo dorso intervallata a distanza regolare da macchioline chiare, quasi bianche. Sembra un po’ stordito, comunque mi tengo a distanza di sicurezza, la Lonely dice che in tutta questa zona sono molti i rettili velenosi, persino il cobra.

Cobra questo comunque non lo è di certo. Chiamo i compagni di trekking per vederlo, i più interessati sono ovviamente i due ragazzi. Scatto un paio di foto a futura memoria, riservandomi di mostrarle al mio amico erpetologo del Museo di storia naturale di Milano, Stefano Scali, quindi assieme ai ragazzi ci avviamo di buon passo per raggiungere la carovana.

(Saprò soltanto tre settimane dopo che l’animaletto era un Echis Carenatus, uno dei più velenosi e micidiali rettili della zona, che vive nella sabbia, in quella stessa sabbia in cui, nelle due ultime sere, camminavo scalzo…)

Il caldo umido è fastidioso tranne che per Gianmarco e Simone, che corrono avanti ed indietro lungo la nostra carovana.

Ad un certo punto Ibrahim indica un paio di animali che attraversano la pista. Sembrano due cani di taglia media, in realtà sono sciacalli.

Sono fermi e ci osservano inquieti, pronti a scappare. Cerco di avvicinarmi con cautela e nel contempo monto lo zoom sulla mia Canon, Tutto inutile!

I ragazzi mi superano di corsa, facendo scappare gli sciacalli… anzi, si mettono persino ad inseguirli nonostante le urla di avvertimento del nostra guida!

Una bassa altura che sembra una duna ci impedisce di vedere la costa ad est, ma secondo la carta dovremmo essere vicinissimi a Foro.

Ci fermiamo per la classica foto di gruppo, uomini e cammelli tutti assieme, mancano solo i caschi di midollo d’alce e i fucili da caccia grossa…

È finalmente giunto il momento di riporre negli zaini i testi che ci hanno accompagnato, cioè la guida del Touring Club sull’Africa Orientale (edizione 1938) e “Viaggio nell’ Eritrea” di Max Schoeller (edizione 1896).

Saliamo i pochi metri dell’altura e subito ci appaiono ad un paio di chilometri le casupole di Foro, greggi di capre sorvegliate da alcune ragazzette, un camion che scarica macerie, due fuoristrada bianchi. Sono i nostri!

Affrettiamo il passo e li raggiungiamo in pochi minuti. Oltre Solomon e Gebrehiwet, ci sono anche i nostri amici Nino e Rezia. Abbracci, strette di mano e subito al bar per brindare con acqua minerale e birre la fine della nostra bella avventura.

Alla prossima!

 

Vincenzo Meleca

Gennaio 2012

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Mali – Diario di viaggio

Mali – Diario di viaggio

Si parte per il Mali! Alle 8.25 abbiamo il volo da Genova, arriviamo a Roma e lì incontreremo il gruppo di Avventure nel Mondo. Abbiamo avuto pochi contatti con i nostri compagni di viaggio, solo qualche mail con la capogruppo. Io non ho contattato nessuno perché non voglio immaginare come saranno i componenti del gruppo prima di partire, preferisco scoprirlo “sul campo”, perché troppe volte l’apparenza inganna. L’appuntamento è alle 11, abbiamo tutto il tempo di fare le cose con calma e di prendere l’ultimo caffè italiano a Fiumicino. Da Roma voliamo ad Algeri, dove dobbiamo aspettare 5 ore il volo per Bamako. Chiacchieriamo con alcuni componenti del gruppo e ci prendiamo un caffè algerino. L’aeroporto è piuttosto nuovo e deserto, siamo solo noi e poche altre persone. Il volo per Bamako prosegue per me in dormiveglia.. sono circa 4 ore ma mi sembra lunghissimo… Arriviamo a Bamako alle 23, per fortuna con noi arrivano anche tutti i bagagli e quindi andiamo in albergo: squallidissimo, nel classico stile Avventure nel Mondo. Vado a dormire tardissimo, perché voglio riorganizzare il bagaglio e farmi una doccia.

Mali di fine secolo – Diario di viaggio

Mali di fine secolo – Diario di viaggio

Il viaggio di ritorno a  Itaca di Ulissa  è stato lungo  dieci anni, per far ritorno alla sua isola, vagando per il Mediterraneo. Ne ho impiegati di più e visitato molti paesi e città del mondo. Ho trascorso pezzi di vita altrove, per lavorare, ma anche per scoprire,  per ritornare e poi raccontare per ricordare. La mia Itaca non è un’isola, ma una penisola, l’Italia. Lo stesso, il cammino è stata la meta, cioè il ritorno in Italia, dopo i viaggi.  Ho viaggiato, quindi, non da Itaca a Itaca, ma dall’ Italia all’Italia.

Goa, tra la salsedine e l’incenso – Diario di viaggio

Goa, tra la salsedine e l’incenso – Diario di viaggio

E’ un posto strano Goa. E’ un’India che non è India.
Quando arriviamo all’aeroporto di Dabolim, dopo ore di aerei e attese, veniamo avvolti dall’afa e da una folla di persone. Poi ci aspetta un’altra ora e mezza di strada polverosa e trafficata, fino ad arrivare a Palolem.

Goa è lo stato più piccolo, potrebbe facilmente passare inosservato sull’enorme mappa del Paese, ed è anche il più ricco, con un PIL pro capite di due volte e mezzo la media nazionale. Il motivo è legato al suo passato e al turismo, che attira ogni anno migliaia di persone lungo i suoi 100 Km di costa.

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