Da Addis Abeba a Djibuti

Febbraio 2018 - Diario di viaggio di Paola
18 giorni

Perché facemmo quel viaggio in Etiopia ?

Vi lascio indovinare fra tre perché   Uno: l’Etiopia ci aveva già catturato col suo fascino sottile alcuni anni fa sulle strade della Rotta storica e le piste della Valle dell’Omo Due: Volevamo vedere di più di quel Paese di desolata bellezza  Tre: Da molto tempo, quasi per un gioco fra noi, pensavamo a Djibuti  leggendo, immaginando nei minimi dettagli, valutando diverse ipotesi. Come si potrebbe arrivarci ? col treno? Forse no ..Vedremo. Poi un giorno abbiamo deciso. O forse fu Mal d’Africa? Non so.

Ad Addis il clima è sempre dolce. Sarà per l’altezza, penso mentre dalla finestra dell’albergo guardo una citta caotica, immensa, in continua espansione.

Benché già visitati in passato, siamo ritornati in alcuni dei fantastici musei di questa capitale: il Museo Etnografico con il suo originale allestimento per cicli della vita, dall’infanzia alla morte, e il Museo Nazionale per rivedere Lucy, ormai una vecchia amica, l’abitante più famosa dell’antica Etiopia.

Abbiamo volutamente trascurato la Cattedrale di San Giorgio e la Chiesa della Santissima Trinità, bellissime entrambe, ma già ammirate, in favore di una escursione sulle alture dei Monti Entoto situati a nord di Addis.

Coperti da una fitta vegetazione e da magnifiche foreste di eucalipti consentono  di tanto in tanto ampi panorami lungo le strade dove le donne trasportano pesanti carichi di legna da ardere sulle spalle ossute e quasi legnose anch’esse.

C’era una volta un albergo e c’è ancora. E’ l’Itegue Taitu Hotel,  costruito nel 1907 per volere dell’imperatrice Taitu, è il più vecchio della città. In pratica quasi un museo per  gli arredi, i tendaggi, i lampadari e la bellissima scala di legno dalla quale sembrano dover scendere da un momento all’altro  personaggi di altri tempi magari per un thè nel giardino ombroso.

“Tomoca”, lo storico caffè italiano aperto nel 1953, è un posto imperdibile per l’ambiente, l’atmosfera e naturalmente la celebrata miscela. Abbiamo bevuto il cappuccino e comperato alcuni pacchetti  di caffè in grani per quando torneremo a casa, ci siamo detti, un po’ anche per ricordare.

E a proposito di ricordi, ti rammenti di quel negozio di libri usati che fu cosi difficile da trovare poiché ad Addis quasi non esistono indicazioni stradali e anche la gente del posto si orienta secondo punti di riferimento come una chiesa o un albergo per dare o chiedere informazioni?  Consunti libri di viaggio in luoghi quanto mai improbabili, logore cartine geografiche (comunque per noi irresistibili ) e alcuni testi di storia in italiano, relativi al periodo coloniale. Ecco il nostro bottino e proprio di questo parlavamo lasciandoci alle spalle la città.

La discesa dall’altopiano di Addis verso la pianura attraversa una serie di grandi periferie dove si susseguono animatissimi i mercati. Sul ciglio della strada frequenti, distesi a terra ,dei teli di plastica su cui i macellai hanno disposto in piccoli mucchi pezzi di carne fresca che gli Etiopi consumano quasi sempre cruda.

Il Parco Nazionale di Awash, la nostra prima sosta, è abbastanza piccolo e non così ricco di fauna. La sua bellezza è tutta nel paesaggio vulcanico declinato in formazioni di roccia nera, coni, crateri e una splendida cascata a gradoni lavici. E sorgenti termali le cui acque a circa 40 gradi consentono bagni se non terapeutici almeno molto rilassanti. Che meraviglia immergersi  in quei catini scavati nella roccia in quell’acqua limpidissima e azzurra all’ombra delle palme dum. Ricordi quanti uccelli e il loro continuo chiacchiericcio sera e mattina come un dialogo continuo a più voci?

La strada in direzione est verso il mare è un nastro di asfalto mantenuto in ottime condizioni per sopportare l’intenso traffico di camion che trasportano di tutto dal porto di Djibuti alla capitale. Ai lati una distesa polverosa e assetata con rari cespugli, rari villaggi , rari dromedari.

Harar ci ha conquistato senza rimedio.

Isolata nella sua altezza, circondata dal perimetro delle sue mura, chiusa dalle sue porte, è un luogo della storia. E’ sempre esistita, non si sa bene da quando, come centro di cultura, di commercio, di religione, di umanità.

La città vive dei suoi mercati, quello dell’incenso, impiegato nella cerimonia del caffè, quello del bestiame, quello degli oggetti riciclati, quello della merce di contrabbando che arriva di notte a dorso di dromedario da Berbera e quello del chat. Qui, voglio dire nel mercato del chat, solo donne (chissà perché) che siedono a terra circondate da grandi fasci di rami dalle foglie di un lucido verde scuro. in attesa dei compratori. Queste foglie che gli uomini masticano soprattutto nel pomeriggio cosi che molte attività si interrompono, danno dipendenza provocando uno stato di lieve torpore . O palese stordimento.

Lo straordinario patrimonio culturale della città è racchiuso nelle sue case tradizionali, le case Adare. Alla relativa semplicità architettonica fa riscontro un complesso intreccio fra l’utilizzo degli ambienti in rapporto alla gerarchia familiare, la ripartizione degli spazi per gli ospiti e il valore e il significato di alcuni oggetti, significato che cambia a seconda della loro collocazione.

Ma altre case ancora ci sono ad Harar, piene di silenzio e di suggestioni , quella di Ras Tafari , in cui  il futuro imperatore Hailé Selassié trascorse la prima notte di nozze, quella in cui visse per 16 anni il poeta francese Arthur Rimbaud che ospita al momento la sua splendida raccolta di fotografie e una ricca biblioteca. Che sorpresa scorrendo i titoli trovare anche quel libro di Burton che tanto ci aveva appassionato!

Babile è un piccolo villaggio non lontano da Harar nei cui paraggi si trova una piccola riserva in cui vivono diversi animali e soprattutto una specie di elefanti secondo alcuni studiosi unica al mondo. Come fu che ci recammo a Babile ? Senza molta convinzione e senza troppa preparazione  dal momento che per quel giorno avevamo in mente qualcos’altro, ma era domenica e tutti i mercati erano deserti.

Occorreva individuare il luogo dove gli elefanti erano stati visti l’ultima volta così da valutare come avvicinarli. Le guide erano state risolute nel decidere per una camminata e questo ci aveva indotto a credere che gli elefanti fossero abbastanza vicini,    forse proprio in quella radura che si intravvedeva dietro gli alberi    dopo il fiume in secca.  Un kilometro dopo l’altro,  avanti,  sempre più intenzionati a non arrenderci, a non ascoltare il tormento di braccia e gambe e il graffiante linguaggio delle spine. Quella che era sembrata quasi una passeggiata si era trasformata in un procedere difficile in una boscaglia folta e intricata. Le guide che di tanto in tanto salivano in cima a qualche termitaio e da lì scrutavano l’orizzonte col binocolo ci facevano capire a gesti che gli elefanti si erano allontanati. Alla fine,  esausti ,  li abbiamo trovati , un piccolo gruppo con un maschio piuttosto ombroso che non ci ha lesinato barriti e sventolamento di orecchie. Non erano i primi elefanti che vedevo e tuttavia non potevo impedirmi di rimanere. ammirata dalla delicatezza con cui con quella lunga e ingombrante proboscide sceglievano le piccole bacche e le foglie più tenere sulla cima degli alberi  Dove saranno adesso?  I graffi e le spine conficcate un po’ ovunque ci hanno accompagnato a lungo.

E’ difficile, quando ad Harar, sottrarsi al rito serale del pasto alle iene. Al di là di quella che è divenuta una attrazione per i visitatori questa vecchia consuetudine origina da motivi di opportunità poiché nutrire le iene evitava che queste attaccassero il bestiame. Fuori dalle mura della città e in silenzio abbiamo aspettato il loro arrivo, incerti perché non sempre si presentano. L’uomo designato alla cerimonia modulando opportunamente la voce ha lanciato i suoi richiami.

Sono arrivate,   una   due  tre   quattro, con la loro andatura sbilenca e gli occhi quasi fosforescenti nel buio della notte. L’odore della carne e la fame hanno fatto il resto  inducendole ad accostarsi  fino a ghermire la carne offerta con le mani. Per quanto si possa ritenere che nulla accadrà  l’avvicinarsi alle iene e provare a  nutrirle non è senza una forte emozione.    Sono stati dei minuti lunghissimi , mi hai detto,  quando il muso della iena era proprio accanto al mio. Qualcuno ogni tanto racconta di essersi imbattuto di notte in una iena alla ricerca di cibo lungo le vie della città poiché ora le porte non vengono più chiuse al tramonto. Chissà poi se è vero.

Conservo il ricordo di un donna non più giovane ma ancora bellissima nei tratti del volto , nei mille e mille fili dei capelli raccolti a formare una treccia, nella intensità del suo sguardo. L’avevo osservata mentre cucinava il caffe su un piccolo braciere quasi sulla porta di casa mentre dalle labbra le sfuggiva a tratti una specie di cantilena. Abbiamo conversato un po’ a gesti e ho fortissima la memoria delle sue mani quando hanno voluto incontrare le mie.

Sentivo che quel contatto mi faceva bene , mi faceva sentire bene. Avevo la sensazione che lei sapesse cosa provavo e perché ero lì e avesse le risposte alle domande che non avevo il coraggio di fare a me stessa. In cambio di niente mi ha voluto dare un piccolo sacchetto con tante piccole pietre colorate.

Ma erano passati i giorni e dovevamo andare.

La nuova ferrovia che congiunge Addis a Djibuti incontra a Dire Dawa una stazione imponente, una cattedrale nel deserto. Lontana dalla città oltre 10 kilometri è circondata da un enorme inspiegabile parcheggio e da ancora più inspiegabili guardie armate che consentono l’accesso ai locali dell’edificio solo nei giorni (alterni) in cui arriva il treno. Come altre infrastrutture in Etiopia e in Africa la stazione e la nuova linea ferroviaria sono state costruite dai Cinesi.

L’altra stazione, quella storica e ora in disuso, era stata realizzata dai Francesi e si trova invece nel cuore di Dire Dawa in una piazza ombreggiata di palme dove ci siamo fermati per una sosta in una specie di chiosco, a mangiare qualcosa.

La nostra richiesta di visitare il complesso degli edifici ha destato qualche sguardo di perplessità e di sorpresa. Poi qualcuno in divisa, un responsabile forse a giudicare dall’atteggiamento, si è presentato  per accompagnarci e penso lo abbia fatto con autentico piacere.

Il corpo principale, le sale d’attesa, la biglietteria sono ancora in buone condizioni per quanto denuncino un evidente abbandono. Sui binari sostano i treni con le carrozze destinate a merci e passeggeri. E’ come se tutto fosse in attesa di un impossibile ciack e tutto dovesse tornare a rianimarsi come in un film solo interrotto. Sentendoci Italiani la nostra guida ha ritenuto opportuno condurci nelle officine per le riparazioni delle locomotive e farci notare che i ponti, gli argani i carrelli e la ferramenta  pesante erano quasi tutti di fabbricazione italiana.

Nella visita ci hanno accompagnato alcuni bambini curiosi e divertiti per l’insolito passatempo.

Il volo da Dire Dawa a Djibuti dura circa un’ora. Entrare via terra sarebbe stato impossibile per la difficoltà di ottenere il visto.

Dunque siamo arrivati e la prima cosa che ci ha colpito è stata la modernità della città, grandi viali ,ampi giardini, enormi supermercati. In albergo ci siamo regalati un bel bagno con acqua a volontà e una cena di pesce, due cose che non ci capitavano da tempo.

Il quartiere africano e quello europeo sono due facce diverse e complementari di questa città che da una parte vive ancorata alle sue tradizioni e dall’altra è decisamente proiettata verso il futuro grazie alla sua posizione strategica. I Docks, i terminal container,le infrastrutture portuali sono grandiosi.

Djibuti Stato è una gigantesca pietraia basaltica con tutte le manifestazioni tipiche del vulcanismo .coni, crateri spenti, soffioni di vapore ,comignoli calcarei. L’ottima strada deserta che conduce a Tadjoura costeggia il golfo in altezza con stupende vedute ora sul mare intensamente azzurro ora  sull’ entroterra arido e bruciato dalla sete.

La deviazione verso Assal è d’obbligo. La discesa verso il lago, si trova a 150 metri sotto il livello del mare, è formidabile: una serie di ampie curve e tornanti in fondo ai quali appare il lago verde azzurro circondato da una enorme distesa di sale. I cristalli luccicano sotto il sole e scricchiolano mentre a piedi nudi ci avviciniamo all’acqua che è salatissima e dunque non consente nessuna forma di vita. Silenziose lunghe file di dromedari trasportano il sale dalla Dancalia.

Dopo Tadjoura la spiaggia di Sable Blanc. Ci si arriva dall’alto con la strada stretta e sassosa che scende ripidissima. Quello che abbiamo trovato è stato esattamente quello che ci aspettavamo e che volevamo: uno posto da vivere sulla spiaggia dall’alba al tramonto perduti in un dolce far niente.

Ti guardo  assopito fra una lettura e l’altra rigorosamente all’ombra perché come dici sempre il rosso gambero non ti si addice e poi entro in mare piano piano e quasi timorosa,  non  perché non so nuotare,  ma quasi per non disturbare i pesci che fuggono via quando i miei piedi sollevano anche solo poca sabbia. Le piccole razze sono le più difficili da evitare, così bene mimetizzate sul fondo anche se l’acqua è di cristallo.

Vedo che mi fai cenno dalla riva e interrompi il mio girovagare nell’acqua  perché sono venuti a chiamarci e il pranzo è pronto e non bisogna farli aspettare dato che  ci siamo solo noi.

Il cuoco è un ragazzo giovanissimo che quando non cucina se ne va a Tadjoura dagli amici e ritorna con una piccola spesa. La sua specialità sono delle frittelle che appaiono in tavola almeno una volta al giorno. Buonissime.

Oggi sono arrivati quattro ragazzi inglesi per fare immersioni alla ricerca degli squali balena ma non è ancora stagione e non nutrono molte speranze. Ci hanno detto di appartenere alle forze militari internazionali con  base a Djibuti  per il presidio del golfo di  Aden.

Abbiamo bevuto una birra e chiacchierato un po’.

Obock è ancora più lontana e isolata, solo un  insediamento di poche case di pescatori  dove lasciarsi vivere dimenticando tutto il resto.

Il vecchio faro a Ras Bir racconta una storia di tempeste , di naufragi e di pirati. Anche qui l’incanto è intatto. Tutto è come doveva essere, come avremmo voluto che fosse.

E proprio li in fondo alla strada c’era quel piccolo caffè dove alla sera aspettavamo il sole al tramonto.

E proprio li in fondo alla strada c’era quel piccolo caffè dove alla sera aspettavamo il sole al tramonto.

In aereo pensavo ai versi del poeta, “ non l’avevamo ancora lasciata e già volevamo ritornare”

In quanto a noi, eravamo arrivati a Roma e mentre raccoglievamo le nostre cose con le mani cercavo nelle tasche il sacchetto di piccole pietre colorate.

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