Viaggio ad Asmara

Dicembre 2012 - Diario di viaggio di Valeria Maffei

Nessuna guerra potrà mai estirpare le radici del cuore. La vita lascia sempre impronte indelebili anche là dove crediamo che tutto sia finito. Prima o poi qualcosa rinascerà.

Mio nonno è nato ad Atene, mia nonna è nata ad Alessandria d’Egitto. Hanno vissuto gran parte della loro vita ad Asmara e lì sono sepolti. Lì è nata mia mamma e lì sono nata anch’io.

Ho lasciato Asmara che ero bambina. Tutta la famiglia ha seguito mio padre, che come medico prestava la sua opera, prima in Cina, a Formosa, e poi in Italia. La città italiana che ci ha accolto tanti anni fa ci accoglie tutt’ora. Più nessuno spostamento oltre oceano, solo tanti traslochi in varie case. Mia mamma, ora novantenne, non ha mia smesso di amarla, Asmara, e i suoi racconti hanno alimentato la mia fantasia come fosse il Paese delle meraviglie  di Alice.

Avevo cinque anni quando siamo arrivati in Italia e tre anni quando ho lasciato definitivamente Asmara. I miei ricordi sono coperti da una sottile membrana opaca che non permette una perfetta e veritiera consapevolezza della realtà. I ripetuti racconti di mia madre mi hanno contagiato di quella malattia del cuore, curabile solo con il ritorno alle radici. Così nei miei sogni c’è sempre stata lei, la mia città, lì dove sono nata. Ma gli anni sono passati e tanti. E la guerra in quella terra non cessava di martoriare la gente che vi viveva. La gente fuggiva da Asmara, io volevo andarci. Così ho sempre rimandato quel viaggio, senza mai demordere. Dicevo: “quest’anno no, vediamo il prossimo”.

“Il viaggio” sembrava confezionato a misura dei miei desideri. Prevedeva 10 giorni ad Asmara con ampi spazi per muoversi in autonomia nella città. Avevo a disposizione giornate intere tutte per me sola. Naturalmente erano previste anche escursioni a Keren, Massaua e alle meravigliose isole Dahlak, che non mi interessavano particolarmente, ma mi sbagliavo e di molto.

Questo diario lo dedico a mia madre

“C’est pas le temp qui passe c’est nous qui passons

La sala d’attesa dell’aeroporto è semi-deserta. Negli sguardi attoniti dei rari viaggiatori cerco d’indovinare la loro possibile destinazione e se mai fosse stata uguale alla mia me ne sarei molto rallegrata. Qualcuno mi lascia l’illusione, il desiderio o la vana speranza di essere un mio compagno di viaggio.

Partita senza alcuna informazione, senza aver letto cosa mi sarebbe piaciuto vedere, senza aver studiato niente della storia, con solo qualche vaga informazione della guerra in corso tra Etiopia e Eritrea. Una tregua apre finalmente un varco, afferro al volo questa opportunità. Vado incontro al viaggio e  il viaggio viene incontro a me, come due innamorati che ancora non si conoscono ma sono destinati a trovarsi.

Ah Asmara! L’eco della mia città mi risuona in frammenti di ricordi confusi. E’ notte quando atterriamo. Un pulmino ci viene a prendere, siamo una decina di persone. Tranne una coppia di ragazzi, io credo di essere la più giovane, sicuramente l’unica che viaggia da sola. In albergo attendo pazientemente la consegna della chiave della camera. I tempi sono lunghi, sono lenti loro o è lunga e complessa la pratica di accoglienza? Nell’attesa mi guardo in giro, sono tutti uomini, uomini d’affari così mi è stato detto.

Salgo al secondo piano. Attraverso un lungo corridoio per raggiungere la mia camera, spaziosa quanto basta. Un balcone si affaccia sul giardino interno dove tavolini e sedie disposti disordinatamente sono in attesa di improbabili turisti. Spargo le mie cose sul letto. Il bagno cieco è decoroso e pulito. Nella stanza una vecchia poltrona in finta pelle occhieggia nell’angolo vicino alla finestra, controlla ogni mio movimento. Sarà la custode dei miei abiti, pochi, e dei miei pensieri, tanti. Questa sera non scendo per cena. Sono stanca e emozionata dal viaggio.

Se fu il primo, il secondo o il terzo giorno non ha importanza ma è da qui che mi piace iniziare  perchè qui è iniziato il viaggio, quello delle radici ritrovate.

Si chiama Padre Tedros Kidanè, è un frate cappuccino a capo della Cattedrale B.V. del Rosario. “Capuchin Friary Our Lady of Holy Rosary “Cathedral”- P.O. Box 1263 – Asmara- Eritrea” leggo sul suo biglietto da visita, ometto la parte scritta in lingua tigrina.

Sull’ampia scalinata della Cattedrale soltanto uomini e giovani ragazzi. Il viale che mi porta lì è un’immagine a me familiare, impressa nella mia mente dalle fotografie e dai racconti di mia madre. Vedo i miei genitori passeggiare a braccetto sotto le palme che ornano il grande viale. Chi mai avrà scattato quella fotografia che ha reso immortale il loro passo come fossero celebrità nella pausa tra una ripresa e l’altra. Mi dirigo verso la Cattedrale. Entro in quel deserto di religiosità dove le persone cercano salvezza per la loro anima. Lì cerco delle risposte benché non sappia bene a quali domande. Cerco qualcuno a cui chiedere informazioni. Busso alla porta della sagrestia, nessuno. Un uomo si avvicina sbucando da una porta laterale. Pochi minuti dopo mi ritrovo sulla sua jeep con lui alla guida nella periferia desolata di Asmara. E’ padre Tedros Kidanè. Parla italiano come tutti gli anziani di questo paese. Ha fretta, deve andare a prendere una persona. Gli chiedo se può farmi avere il certificato di matrimonio dei miei genitori. Mi invita ad andare con lui e mi promette che mi farà avere quello che cerco. Mi racconta che la segretaria è malata e pertanto dobbiamo andare a casa sua per chiederle il documento. Quanta ingenuità nel mio cuore! Passiamo a prendere una persona, mi dice. Così tra la polvere e la curiosità mi ritrovo a viaggiare su una macchina con un uomo che non conosco in un posto che non conosco senza sapere dove sto andando. Fede, il mio angelo custode, e la fortuna hanno fatto il resto. Il mio carosello investigativo è iniziato.

La mattina ci ritroviamo nella hall per il nostro primo giorno di visita alla città. La nostra guida, che ci accompagnerà per tutto il periodo del nostro soggiorno è un uomo di sessant’anni, alto e robusto. Ha pochi capelli e un gran sorriso. Tutte le mattine fa addestramento militare obbligatorio poi va al lavoro. Piantonato davanti al pulmino all’ingresso dell’hotel, ci consiglia di non parlare mai di politica con nessuno, meglio non fidarsi dice, non possiamo sapere chi abbiamo di fronte e da che parte sta. I soldi possiamo cambiarli da lui ad un cambio favorevole. Uno alla volta come scolari alla loro prima gita saliamo con garbato ordine. Ci mostrerà gli angoli più caratteristici di Asmara. Al mercato delle spezie mi perdo tra la vivacità dei colori e i profumi  esotici dispersi nell’aria. Le donne hanno mani gentili che affondano in sacchi di cotone bianco per riemergere cariche di polveri colorate con sfumature varie a ricordarci l’abbondanza della vita.

Prendo nota delle strade, in seguito sarà più facile orientarmi. Asmara, semplice, pulita e poco trafficata, è una città dal fascino misterioso, è bella senza mostrarlo. Cela i suoi sentimenti e le sue paure  dietro la calma apparente di gente che cammina con passo lungo e leggero, come di chi dalla vita ha avuto tutto e gli resta ancora tempo per goderselo. Nasconde  la verità nella periferie dove si mostra affaccendata a costruire l’impensabile. Raggiungiamo Medebar Market, il mercato delle granaglie, o Caravanserraglio. Resto ipnotizzata da quanto le persone sono indaffarate a picchiare, sbattere, tagliare, segare, in un assordante rumore di lamiere e ferraglie con parole incomprensibili. Scatto qualche fotografia, poche in realtà, di questo mondo misterioso che, come in un formicaio, aggancia la vita al fare martellante senza sosta, per chi, per cosa, per dove, rimarrà un mistero.

La ragazza ha riccioli neri e un gran sorriso, è alta e magra. Salta sulla jeep accomodandosi sul sedile posteriore. Me la presenta ma non ricordo il nome. Comunichiamo con sorrisi e lievi movimenti del capo. Dopo una ventina di minuti siamo arrivati. Padre Tedros Kidanè parcheggia l’auto su un piazzale polveroso antistante delle abitazioni, moderne discendenti delle capanne. Una donna ci viene incontro. Indossa un vestito a fiori rosa che non nasconde la generosità delle sue forme. Ci invita ad entrare. Siamo in cinque o forse in sei in uno spazio non più grande di tre metri quadrati. C’è tutto quello che fa di una casa una casa. La zona notte, la zona giorno, la cucina e non oso pensare dove possa essere il bagno. Non capisco nulla di quello che dicono ma sembrano felici. Le loro voci brillano verso l’alto, inafferrabili e gioiose. Ci accomodiamo in sala da pranzo, si fa per dire, attorno ad un tavolo rotondo e basso. Siamo stretti stretti, che quasi non posso muovere le braccia e respiro a stento. La donna vestita di rosa depone al centro del tavolo un grande piatto rotondo con lo zighinì a base di spezzatino di carne condito con una particolare miscela di spezie chiamata berberè. Le loro braccia si allungano e con dita agili ed esperte spezzano un pezzo di “injera”, un pane sottile somigliante per forma alle crepes, che intingono nel sugo e vi avvolgono bocconcini di carne e pezzi di verdura.

Non ci sono piatti, posate, tovaglioli ma dita lunghe e ambrate che percorrono lo spazio tra il piatto comune e le singole bocche per ritornare ad affondare nel piatto. Mi faccio coraggio. Li imito con molto imbarazzo e impacciata come può esserlo un elefante in un negozio di cristalli. Sorridono, parlano, mi guardano. Segue il momento delle danze, sempre nei tre metri quadrati. Si muovono come se intorno a loro non ci fossero pareti, né mobili ma solo un grande vasto campo, un prato o una piazza. I loro corpi rimbalzano a ritmo dei canti, la loro voce onora il ballo. Sono contagiata dalla loro allegria. Oggi è domenica sono vestiti a festa, anche i bambini. Sono splendidi.

E’ tempo di andare. Chiedo a Padre Tedros  Kidanèil documento di matrimonio dei miei genitori. Lui mi presenta alla cosiddetta segretaria. Comincio a pensare che non esista nessuna segretaria ma sto al gioco. La donna vestita di rosa mi parla con gentilezza e mi chiede il mio indirizzo. Mi spedirà il certificato. Mi chiede dei soldi. E’ solo l’inizio. Mi porterà fare visita ad altre famiglie, per ognuna il cerimoniale è lo stesso, cibo e danze. Alla terza famiglia, sempre solo con donne e bambini, il mio stomaco chiede clemenza. Non concessa. Ballano e cantano per me e poi con la discrezione di una spia Padre Tedros mi suggerisce, temendo la mia dimenticanza, l’obolo da lasciare ai suoi devoti.

​La sera, in albergo, rinuncio alla cena e telefono a casa, in Italia. Niente internet, significa niente cellulare e niente telefono in camera. Per telefonare scendo alla reception, consegno un biglietto sul quale scrivo il numero da chiamare. Mi indicano di entrare in una cabina e lì aspetto pazientemente che il telefono squilli per me. Aspetto cinque, dieci, quindici interminabili minuti dentro quel parallelepipedo soffocante. Non sempre riesco a parlare con la mia famiglia. E’ tutto controllato, la comunicazione con l’estero è difficile.

L’indomani partiamo per Massaua. La guida dice che hanno ripristinato il trenino per noi. Vero o falso non ha importanza. Raggiungiamo la stazione dove il macchinista ci aspetta, la locomotiva a carbone ci porterà dall’altopiano giù verso quella città di mare sul mar Rosso teatro di avventurose vacanze dei miei genitori e in seguito di bombardamenti e distruzione durante la guerra trasformando il paradiso in inferno. Rotture meccaniche durante il percorso, abilmente risolte dalla perizia dei ferrovieri, hanno dato ancor più fascino al panorama mozzafiato, a buie gallerie e ponti sospesi sul vuoto.

Raggiungiamo Massaua nobile e fiera, abbandonata dai fasti di un tempo,  mostra le sue ferite non ancora rimarginate. Gente povera la abita, bambini che fanno la ruota ai bordi di strade deserte, cani randagi in cerca di nulla, gruppi di donne agli angoli delle case cuociono in pentoloni pozione magiche osando una dignitosa povertà.

Le isole Dahlak di fronte alla città portuale di Massua completano l’incanto del viaggio. Dormiamo al Grand Hotel Dahlak. La camera è molto spaziosa, grandi finestre ornate di bianchi e svolazzanti tendaggi aprono la vista alla piscina tristemente asciutta, impoverita e scrostata dagli anni di mancato servizio. Ci attende un atollo di sabbia corallina finissima, paradiso di numerosissimi uccelli marini, un mare cristallino abitato da pesci di tutti i colori dell’arcobaleno.

Presso la comunità cappuccina delle suore cappuccine di Madre Buratto opera Sister Letharban. Condivide con il popolo eritreo le non poche sfide che deve affrontare. Ho con me una valigia piena di vestiti e medicinali da consegnarle. Con Padre Tedros Kidanè raggiungiamo la Missione. Lei ci aspetta all’ingresso del giardino con i suoi splendidi bambini nei loro grembiuli azzurri, colore dell’armonia e della serenità, curiosi ed educati come cuccioli in attesa di crescere.

Sister Letherban mi porta in visita della Missione offrendo al mio sguardo una dignità e profondità di vita inaspettata. Infine mi regala una “futa” tessuta da loro che ancora conservo gelosamente. Gli oggetti in sé non hanno alcun valore se non quello che proviene dal cuore. La rivedrò ancora una volta prima della mia partenza poiché sarà con lei che dirò l’ultima preghiera sulla tomba dei miei nonni. E’ stato il suo modo di ringraziarmi offrendo loro una preghiera che da cinquantadue anni nessuno della mia famiglia era più potuto andare a trovare. Nel salutarla ancora una promessa di tornare, consapevole che a volte una bugia, alla quale entrambe abbiamo voluto credere, rende più piacevole il distacco.

Il  gruppo di “anziani nostalgici” riparte per un’altra escursione: Keren ultimo avamposto dove gli italiani hanno subito la sconfitta da parte degli inglesi durante la seconda guerra mondiale. A ricordo di quella battaglia l’Italia cura la conservazione del cimitero di guerra, dove riposano insieme soldati italiani ed Ascari, nessun nome sulla tomba degli Ascari ma un semplice “ignoto”.

Lungo il wadi ci soffermiamo nel caotico mercato dei cammelli, gironzoliamo in quello dell’artigianato locale tra donne velate da colorati drappeggi che mostrano i loro oggetti fatti a mano. Nella via degli orafi compero un braccialetto d’argento identico a quello che mia madre si portò in Italia  ridando così vita ad un ricordo ormai spento, brace che arde sotto la cenere. “Ho sempre la sensazione che con molta pazienza e fortuna potrei trovare, su chissà quale stuoia, la collana di Sherazaade, perché Keren, per il viaggiatore incantato, sembra avvolta in un’atmosfera da mille e una notte.” scrive Erminia dell’Oro in uno dei suoi reportage.

Il pulmino ci aspetta sulla piazza del mercato, nello stesso punto dove ci ha lasciato. Al mio arrivo un poliziotto è già salito mentre un altro aspetta fuori. Senza dire una parola mi siedo e aspetto che arrivino gli altri. Chi sale non può più scendere. Il poliziotto ci controlla uno ad uno. La nostra guida è impallidita e cerca di dialogare con lui, invano. Il pulmino parte. Direzione: stazione di polizia. Nessuno fiata. Tutti sono invitati a tacere. L’accusa è di spionaggio. Uno di noi ha scattato delle fotografie al mercato e questo è proibito. Eravamo stati avvisati ma qualcuno ha disobbedito. Ognuno si metta la mano sulla coscienza e scagli la prima pietra. Il pulmino si ferma davanti alla stazione di polizia. La nostra guida scende, resta con noi un poliziotto. L’aria si può tagliare a fette tanto è impregnata di paura. Dopo un’interminabile ora la guida ritorna, il poliziotto scende, siamo liberi. 

Sulla via del ritorno ci fermiamo alla Madonna del Baobab. La leggenda narra che nei pressi del grande baobab ci fu una cruenta battaglia. Alcune persone si rifugiarono nell’anfratto del grande tronco e rivolgendo una preghiera alla Madonna si salvarono. Ci siamo salvati anche noi!

L’ho conosciuta in questo viaggio ma i fili che uniscono due persone avevano già tessuto il loro intreccio tanti anni fa. Nata e cresciuta ad Asmara, ha conosciuto parte della famiglia di mia mamma. E’ lei che mi ha accompagnato la prima volta al cimitero per cercare la tomba dei miei nonni. Dal tempo dell’abbandono di Asmara nessuno della famiglia era più tornato a pregare sulla loro tomba. Sono passati cinquantadue anni. Con Erminia a farmi da interprete raggiungiamo il cimitero ed entriamo in una piccola stanza dove un piccolo uomo dietro ad una piccola scrivania ci consegna due registri, uno voluminoso e l’altro esiguo. Metà greca e metà italiana, mia madre non ricordava dove fossero sepolti i suoi genitori. Iniziamo da quello italiano, il più grosso. Le nostre dita scorrono lungo la lista dei nomi delle persone sepolte nella parte italiana. Non c’è nessuno che corrisponde né al nome di mio nonno né a quello di mia nonna. S’insinua lo sconforto e passiamo all’altro, quello dei greci con nomi impronunziabili. Li troviamo: numero del campo 10, numero della fossa 1 e 2. Seguiamo il custode attraverso tombe abbandonate, lapidi divelte o rotte, irte sterpaglie crescono impavide sul sentiero ghiaioso, qua e là ossa di non si sa bene quale provenienza. Eccola, in fondo al campo quasi uguale a quella della fotografia che avevo con me. Una glicine rende bellezza alla tomba dei miei nonni, Elsa e Trassivulus, date e nomi incisi e visibili sul marmo che una mano amorevole ha tenuto pulito negli anni in attesa del mio arrivo. Nessuna fotografia, gli angeli le hanno prese con sé. In seguito scopro che è lui ad occuparsi del cimitero greco, Giovanni M. il sarto. Che qualcuno si sia occupato della tomba dei miei nonni non ha forse il sapore di un amore universale?

E’ stato Padre Tedros Kidanè a portarmi da lui una mattina. Entriamo nel suo negozio di sartoria ma lui non c’è. La moglie mi dice di aspettare che entro breve sarebbe rientrato. L’attesa è senza tempo, arriverà quando arriverà. Padre Tedros Kidanè ritorna ai suoi adempimenti caritatevoli mentre io mi accomodo su una poltrona. E’ tardi quando, finalmente Giovanni M. arriva. Lui può aiutarmi a ritrovare le case dove abitai e quella dei miei nonni. Legge attentamente il foglio sui cui mia madre ha scritto il nome delle vie ma non le riconosce. Possibile che mia madre si sia inventata tutto? O il passare degli anni ne ha modificato il ricordo? L’indomani ancora un volta mi ritrovo su una macchina con un uomo che non conosco, in un paese che non conosco, con una lingua che non parlo e non so dove mi sta portando. Giovanni però, essendo un anziano, parla perfettamente l’italiano. Arriviamo alla biblioteca dei Pavoniani di Asmara, punto di riferimento per lo studio e la ricerca. Un giovane uomo, forse il responsabile, ci accoglie con generosità di sorrisi. Giovanni spiega il motivo della nostra visita e sul tavolo della biblioteca si materializzano in men che non si dica libri e cartine dell’epoca. Un minuzioso confronto delle cartine dei due periodi, quello dei miei nonni e quello attuale, ci permette di localizzare le vie delle strade che nel frattempo hanno cambiato il loro nome. Ripartiamo, io più felice che mai. La vita non finisce di sorprendermi. Al rientro ad Asmara mi porta a vedere le case dove abitai. Quel sogno desiderato e amato si realizza, i miei occhi catturano l’istante e lo forgiano nel cuore. La prima è al terzo piano di un grande palazzo all’angolo di una piazza, la seconda al primo piano con terrazzo di una piccola e modesta costruzione nel centro della città. Lì sono nata e cresciuta in quei primi tre anni di vita, quelli che segnano l’impronta di ogni esistenza. La villa dei miei nonni non c’è più, probabilmente distrutta o dai bombardamenti o dalla civiltà. Giovanni, il sarto greco, non lo rivedrò più e non riuscirò a mantenere la mia promessa di inviargli, una volta rientrata in Italia, magliette e pantaloncini da calciatori per i ragazzi che allena.

Un viaggio fatto di promesse, alcune mantenute altre no. Profondamente grata a questa terra d’Eritrea, tornerò. E’ una promessa!

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